Lettori fissi

mercoledì 12 maggio 2010

Biografia e note critiche

GIUSEPPE MESSINA - UN ARTISTA COMPLETO

Giuseppe Messina, nasce in quella millenaria Gala, frazione del comune di Barcellona Pozzo di Gotto in provincia di Messina, già sede dell'importante monastero dei padri Basiliani fino al 1779. Nella seconda metà degli anni sessanta del secolo scorso lascia la Sicilia per trasferirsi a Roma dove entra in contatto con il grande mondo della cultura e, quindi, può aprirsi a più vaste conoscenze.
Egli è scultore e pittore, infatti ha realizzato pregevoli opere che possono essere ammirate in esposizioni pubbliche e private in Italia - dove ha esposto assieme ad artisti come S. Fiume, E. Calabria, R. Guttuso, R. Brindisi ed altri grandi - ma anche all'estero (Russia, Argentina, Sud Africa, Australia, Canada, U. S. A., Inghilterra, Malta e diverse altre città europee); ma ha al suo attivo anche la realizzazione di opere pubbliche. Ciò nonostante ha un particolare interesse per la letteratura e la mitologia classica, ed è grazie a questa sua passione che riesce a realizzare una trilogia ovvero tre poemi endecasillabi dedicati ad Omero, e cioè "Odissea ultimo atto" (Pubblicato a cura del Movimento per la Divulgazione Culturale di Barcellona Pozzo di Gotto) che continua l'Odissea omerica, "La leggenda di Omero" (Ediz. Bastogi) con cui reinventa e rende reale il più classico dei poeti e "Stirpi di Atlantide" (Inedito) che narra le ultime ore del mitico continente, prima di inabissarsi, e la fuga verso altre terre di una parte di quel popolo. per questa trilogia gli è conferito il Premio Speciale della Giuria (Medaglia d'Oro del Senato della Repubblica) a Palazzo Barberini in Roma, al concorso letterario dedicato ad Antonio De Curtis, in arte Totò.
Giuseppe Messina è anche autore di diverse opere teatrali, infatti oltre a "Nel Mitico regno di Eolo" (Libera riduzione del primo poema) ha scritto "Lamento Per Placido Mandanici", "Testamento teatrale", "Non sono Cyrano di Bergerac", "Nel segno di Socrate" e altre. Più che altro egli si definisce scultore, infatti ha realizzato diverse opere in legno, in pietra arenaria, in granito, in ossidiana e in bronzo: è in pietra arenaria di Lecce "Ciclope nel vento" donato alla sua città nel 2002; in bronzo sono le dodici sculture realizzate per illustrare il suo primo poema, e nello stesso materiale sono i monumenti, sia quello dedicato a Nello Cassata, storico della città di Barcellona Pozzo di Gotto, che quello in onore dell'eroe della prima guerra mondiale Luigi Rizzo sul porto di Milazzo, così come altre opere funerarie. L'artista ha lanciato l'idea che ha portato all'istituzione del "Premio Città di Barcellona Pozzo di Gotto" per cui ha creato e donato lo stesso trofeo bronzeo "Longano", simbolo della città, con il quale sono stati insigniti: lo storico Santi Correnti, lo scienziato Antonino Zichichi, Donatella Bianchi, conduttrice di "Linea Blu" e l'attrice Francesca Chillemi "Miss Italia" 2003.
Il Messina, a cui sono riconosciuti autorità e prestigio, è stato invitato da Circoli Didattici a tenere seminari di aggiornamento per insegnanti sui temi "Educazione all'immagine e Beni Culturali"; ha tenuto conferenze, ed è stato correlatore sul tema "Archeologia tra passato e presente" assieme ai professori Tullio Maneri esperto di archeologia e Renato Pitrone titolare della cattedra di Archeologia all'Università "La Sapienza" di Roma; tra l'altro è stato chiamato da diversi Istituti Di Scuola Media Superiore quale docente per i progetti di Storia della Sicilia, delle Tradizioni Popolari e del Folklore, di Pittura e Scultura nonché di Teatro (Dizione, Recitazione, Mimo e Portamento) mettendo in scena alcune sue opere. Nel 2006, in occasione del suo quarantesimo anniversario di attività artistica, gli è stata conferita la Targa d'Argento della Presidenza della Repubblica dal presidente Giorgio Napolitano.

* Sintesi della biografia realizzata dalla professoressa Maria Torre.

La Molla


FRANCESCO CARDILE
Libertario spirito di poeta

Avevamo voglia di scrivere qualcosa di questo personaggio: uno straordinario poeta e drammaturgo che, sinceramente, incuriosisce chi casualmente lo incontra, anche per quello spirito un po’ libertario che lascia trasparire il suo essere. Siamo stati agevolati nel momento in cui ci è capitato tra le mani un suo libro pubblicato nel marzo del 2001 “I giorni della memoria”, questo il titolo della raccolta di poesie, un volumetto già letto e riletto, ma avevamo dimenticato la sua dedica che tanto abbiamo gradito: “Andiamo avanti senza temere furor di nembi e vento di procelle… L’amicizia guida la rotta. (Franco Cardile). C’è sicuramente una data in cui, per la prima volta, ci siamo incon-trati. Saranno quindici anni o venti? non ha importanza: è importante che in tutto questo tempo siamo riusciti insieme a fare tantissime cose buone. Una valanga di ricordi ci viene addosso quasi non sapremmo da dove incominciare se non fosse che il tempo è scandito in date e le testimonianze scritte sono state ben conservate. Le nostre idee sono state sempre combacianti ed è bastato elaborarle perché diventassero realizzabili. Ricordiamo con piacere le tante sedute davanti al caminetto, là dove, mentre la fiamma divoratrice del ceppo incandescente e scoppiettante disegnava i suoi alti e bassi, è nata l’idea di mettere in scena la storia della vita del musicista-patriota barcellonese della prima metà dell’800 Placido Mandanici. Abbiamo ragione di credere che senza Franco Cardile non avremmo potuto mettere in scena quel dramma tanto importante per la cultura di Barcellona Pozzo di Gotto, anche se la stessa città non ha saputo approfittare per dare un seguito. Moltissime sono state le manifestazioni di cultura organizzate assieme, dalle nostre Associazioni, “il Movimento per la Divulgazione Culturale e l’“Accademia delle arti” e “Messi-na Oggi” di cui egli è fondatore e Presidente. Proprio tantissime, mostre di pittura, convivi d’arte e cultura, recital di poesia, presentazione di libri o altro, e mai una serata d’onore dedicata a lui che tanto l’avrebbe meritato, ma non è detto che gli amici non abbiano in serbo qualcosa d’importante da dedicargli in un imminente futuro. Ricordiamo come la parte di Placido Mandanici sia stata scritta su misura per lui che l’ha interpretata magistralmente, lasciandosi dirigere pazientemente e con grande umiltà dal regista Franco Gangemi; una parte molto difficile come tutto il lavoro, d’altro canto, ma lui è riuscito dove solo i grandi attori possono riuscire, commovendosi e facendo commuovere la platea. Fa piacere ed è consolatorio sapere di poter contare su un amico come quest’uomo; a volte può sembrare malinconico, ma spesso si fa carico dei problemi degli amici ed è d’incoraggiamento, di sostegno nei momenti di bisogno. Franco Cardile è poeta proprio nell’anima e le sue parole sanno di bisturi che taglia pezzi di umanità, di società e la proietta nel sub-lime mentre ignora o disprezza il resto ovvero chi, a qualunque cos-to, vuole apparire ignorando volutamente la propria miseria, la propria meschinità e sconosce la speranza nel divenire, nello sviluppo, nell’evoluzione positiva dell’animo umano. Abbiamo avuto modo di scrutare dentro l’uomo e abbiamo modo di apprezzare la sua severità, la sua bontà, il suo altruismo e anche le sue impennate di orgoglio, le sue esplosioni di ira nei confronti di esseri arroganti perché irraggiungibili come i detentori del potere materiale che possono decidere della vita e della morte d’interi po-poli. Non possiamo dimenticare un verso di una sua poesia ancora inedita: “M’importa un cazzo delle Torri Gemelle…” . Detto così non potrebbe sembrare meno di una volgarità, ma in questo verso vi è tutto l’amore, l’empatia per tanta gente affamata, sfruttata, massac-rata o sperduta, dimenticata dalla pietà dei potenti che costruiscono gabbie dorate e sicure per sé e per i propri averi ignorando qualsiasi esortazione evangelica. Alla fin fine, Francesco Cardile, conscio di essere un poeta dichia-ra come, pur nella sofferenza, nella delusione trovi nella poesia l’unica sua salvazione dalle miserie della vita. “Essere un poeta” è la poesia individuata in cui egli si confessa: È sofferenza essere un poeta: / ricordare luoghi dell’amore, / par-lare con le ombre del tempo / presente, in chiaro scuri irreali,/ confondere con il passato, / e con le ore del futuro. / È strano essere un poeta. / Costruire con fili di follia / castelli di fragile cristallo, / cantare teneri versi appassionati, / distruggere con sottile cattiveria / ogni cosa con una poesia. / Che bello essere un poeta. / Creare con le parole, come piace, / la vita e il mondo in un giuoco / che non ha mai fine, dove esiste / solo la fantasia. / È bello essere un poeta. Sì è bello essere un poeta e percorrere lo spazio vitale come egli fa, con quell’anima di fanciullo innamorato che non disdegna di as-coltare e meditare sul “canto lontano delle sirene”. È bello essere poeta, anche quando si è portati a considerare il giorno “già passato, ormai perduto nel tempo, con sogni e desideri”. Ma certamente ciò non è che la traccia di un normale passaggio della malinconia, quella che a volte attende in agguato per cercare di sopraffarci e che la sensibilità del poeta non può non registrare; così come la quercia non rimane impassibile all’impeto del vento. Franco Cardile è, in verità, una quercia dalle braccia enormi come sanno essere quelli di un amico dall’animo forte e confortante che, per amicizia, è sempre pronto a prendere di petto nuove prove e difficili avventure pur non sapendo, a volte, dove queste possano portare. Comunque, chi gli vuol bene sa che se dovesse incombere tempesta, qualunque possa essere la sua entità, egli saprà reggere il timone e mantenere la rotta per portare la nave al sicuro. (Giuseppe Messina)

Romanzi

"ODISSEA ULTIMO ATTO"



PRIMA PARTE

L’ira di Ulisse

Ascolta, figlio, quel che ti racconto;
Mi ascolti chi vuol sapere ancora
Di questo centro del grande universo.
Non sarà fatto qui alcuno sconto,
La vela è già nel vento dell’aurora,
S’avvia in un mondo mai perso.
Giorni crudeli per l’errante Ulisse
- Racconta un vecchio che nell’aria svela
Un’avventura quanto mai strana -
A cui egli ancora sopravvisse,
Ma a sentirlo anche il sangue gela,
Nel mentre il racconto si dipana.
“ Io son vecchio – dice il cieco Omero –
Ma non son solo: qualcuno mi sente,
Viaggio al buio col cuore che canta
E quel che dico risponde al vero,
Perché illuminato nella mente
Da un’avventura grande che m’incanta.”
Telemaco morì assassinato
In una notte sotto luna e stelle;
Era col padre e fu preso di mira,
Cui il dardo vile, ormai scagliato,
Trafisse il cuore giù sotto la pelle
E scatenò d’Ulisse la grand’ira.
“Unico figlio morto prematuro
- Gridò Ulisse, lì inginocchiato -
Gli dei, spero, mi daran la forza,
Ma non c’è pace nel mio futuro:
Ucciderò chi t’ha assassinato;
Non può invecchiar così la mia scorza.
I loro corpi, pasto per i cani,
Non potranno avere funerale.
Giuro: sterminerò pur le famiglie,
Eseguirò con queste mie mani
Senza temere alcun divino strale.
Sgozzerò pur le mogli e le figlie.
Tremate, Proci; non avrete scampo:
Le vostre case non avranno porte.
So che gli dei mi lasceranno fare,
Com’è sicuro il tuono dopo il lampo,
Liberarvi potrà solo la morte
Se da quest’ira vi vuole salvare.”
L’urlo d’Ulisse, per l’ira immensa,
Svegliò la gente d’Itaca dal sonno,
Tremarono i Proci maledetti
E la paura loro fu tremenda.
Come nella tonnara fa il tonno,
Così essi si videro perduti!.
E’ ancor notte e non tace il vecchio,
Con una voce quanto mai divina
Dispiega un poema sconosciuto
Che si riflette come in uno specchio
Finché non giunge la nuova mattina
E non s’acquieta l’animo cocciuto.
Ma intanto la notte molto lenta,
Passa portando sapori lontani:
Ulisse vivo, quanto mai guerriero,
In un’età che ad invecchiare stenta.
Fatti sognati, ma pur sempre strani,
A cui, sveglio, rivolgo il mio pensiero.
Dice Omero: “Non son un ciarlatano:
Riprendo un testo già familiare
Per raccontare una terza parte,
Per cui tocca partire da lontano;
Da quando Ulisse fu visto tornare,
Ma già la moglie lo tradiva ad arte.”
Dalla vecchia nutrice rincuorato,
Gli è chiesta pure la comprensione:
“Del resto in vent’anni d’abbandono
Non è che sia un grande reato
Se ha trovato qualche evasione.”
Con tanti Proci attorno al trono,
Non fu per questi l’innamoramento
Che la regina, poi, fece sognare:
Fu per qualcuno ch’ella non pensava.
Ma questo suscitò compiacimento
In cortigiana avvezza a spiare,
Perché in cuore, ancora, sperava
Di potere un giorno conquistare
Il cuore del suo caro sovrano.
Di lui, da sempre innamorata,
Voleva un giorno farsi amare,
Quando che, ritornato da lontano,
La regina avrebbe ripudiata.
Codesta Erinna, cortigiana, disse,
Abbracciandolo per il benvenuto:
“Ti devo dare un grande dolore:
Penelope non t’è fedele, Ulisse.
Ma tu, essendo un uomo astuto,
Saprai agire col giusto rigore.
Io posso solo adesso fare
Il nome dell’amante ch’è Laedo,
Un giovane prestante atleta
- Poi disse, finendo di parlare -
Io, in cambio, a te nulla chiedo
E non c’è niente che a me competa.”
Ulisse, a quell’atroce impatto,
Tese l’orecchio e gli occhi spalancò,
Ma da qualunque atto si trattenne,
Anche se ne rimase esterrefatto.

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Seconda puntata


Per un istante il respiro gli mancò
Ed infelice in cuore egli divenne.
Non pago dei Proci assassinati,
Dimentico di tante avventure,
Con l’animo deluso, amareggiato,
Maturava pensieri dissennati;
Della vita vedeva le brutture,
Ma da suo figlio egli era incoraggiato.
Telemaco, un giovane, cresciuto
Con la protezione della madre,
Aveva avuto fiducia nel fato,
Poi finalmente ritornò l’astuto
E grande eroe, il suo amato padre;
Però non aveva considerato
Quel che posson fare l’istinto umano,
La gelosia e la possessione.
Ulisse non stava in casa, la sera,
Girava per cantine fuori mano
E il figlio, con devota passione,
L’accompagnava nella notte nera.
E fu nell’ombra che scoccò il dardo
Una mano nemica, assassina,
D’uno dei Proci, per vendicare
Gli uccisi di un branco codardo
Che non vide il sole una mattina,
Perché Odisseo vollero sfidare.
Laedo, amante di Penelope,
Di Antinoo fratello minore,
Leggiadro, come un dio, nell’aspetto,
In corsa al pari d’un antilope
- Si allenava sempre con rigore -
Largo di spalle, nella vita stretto.
Con Euriclea, su per la collina,
La calda primavera inoltrata
La regina Penelope spingeva
Fra i fiori e l’aria sopraffina.
E qui, Laedo, l’aveva incontrata
E s’abbagliò così, mentre correva.
S’inginocchiò, allora, all’istante:
“Regina – disse – la tua bellezza
Mi penetra il cuore, e mi confonde;
Nel sognarti, come mia amante,
Si dissolve in me ogni tristezza
E da quest’occhi gioia si diffonde.”
“Lasciami il passo ed io ti consento,
d'andar tranquillo per la tua strada;
Gli dei ti potrebbero punire
Perché così aumenti il mio tormento.
Godi il profumo di questa contrada,
E lasciaci in pace proseguire.”
Educatamente, l’uomo si tolse,
Le lasciò il passo e lei andò.
Lui rimase col cuore ansante,
Ma lei la caviglia si distorse
Dopo che, per puro caso, inciampò
E rimase a terra dolorante.
Euriclea, nutrice fedele,
Le diede soccorso immediato,
Poi chiese l’aiuto di Laedo,
Che scoprì come non era crudele
Il fato che l’aveva premiato,
E fra sè disse: “Quest’ è ciò che chiedo.”
“Se sei forte – disse la nutrice –
Solleva la regina sulle braccia
E portala alla sua regal dimora.
Così vuole Era la la gran Genitrice.”
Intanto la sovrana, sulla faccia,
Sentiva quel calor che non s’ignora.
Era pur vero quel che lei diceva:
Giunone aveva parte importante
In questo dramma d’amore e di morte.
La dea la vicenda conduceva
E condusse a Penelope un amante,
Causa, questo, della malasorte.
Da qui partì la strana incarnazione:
Fu la dea che in Penelope agì
E ripagò di Giove i tradimenti.
Senza pietà si comportò Giunone
E quindi, come donna, Giove tradì,
Senza badare a fatti conseguenti.
“Non voglio apparire irriguardoso,
Regina dolente del mio cuore,
Però vorrei ringraziare gli dei
Per questo breve momento gioioso
Che toglie alla vita ogni grigiore
E si fanno dolci i pensieri miei.”
La donna palpitante e turbata,
Nel constatare quanta diversità
Vi fosse in quel giovane leggiadro,
Si sentì vinta e affascinata.
Provò morbosa la curiosità
E l’osservò come se fosse un quadro.
Penelope taceva sulle braccia,
Sentiva dolorante la caviglia,
Ma ascoltava cogli occhi e col cuore.
Si sentiva preda dopo la caccia,
Si sentiva perla nella conchiglia
Ed era invece vittima d’amore.
“Corri al palazzo – disse all’ancella –
E poi torna qui con un cavallo,
Questo dolore è già lancinante.”
Allora più che poté corse quella
E rimase Penelope col tarlo
Che nel cervello ripeteva: “Amante.”
Rimasta finalmente con Laedo,
La regina, malgrado il dolore,
Pensò ai suoi umani istinti.
“Ora tu rispondi a quel che ti chiedo
- Disse la donna con grande pudore -
Chi sei tu che hai gl’indugi vinti?”
“Mia regina, io son Laedo
E di Eupite mi vanto figlio,
Son dei Proci, ma d’animo gentile
E se non son gradito mi congedo,
Correrò via lontano un miglio
E nel cuore mi sentirò un vile.
Ma prima ti porterò al sicuro
In quella che è la tua dimora,
Poi andrò via il più lontano
E fra me e te alzerò un muro
Su cui scriverò: “L’amore ignora,
Laedo, ogni tuo sforzo è vano.”
“Sii orgoglioso di quello che sei;
Di te non è degno tuo fratello
Facente parte di quell’accozzaglia
Che depreda gli averi miei:
Gli ficcherei in cuore un coltello,
Dato che è lui che guida la marmaglia.
Ancora una cosa voglio dirti:
Se vuoi avere la mia stima
Ad Antinoo non devi somigliare.
Solo in questa lingua posso capirti,
Facendo versi con la stessa rima,
Quella che il cuore fa palpitare.”
Congedandosi, poi, dalla regina,
Laedo sussurrò più che cortese:
“Signora mia, bramo rivederti
Qui alla reggia o su in collina.
Sono umane le mie pretese
E questi sentimenti i più certi.”
La moglie d’Ulisse fece un patto
Con quello che divenne suo amante:
Nessuno mai doveva sapere
Della tresca ch’era ormai un fatto.
Tenne all’oscuro pur la governante,
Ma di nascosto lei poté vedere.
Euriclea non fece parola,
Non fu complice mai nell’avventura,
Ma la servì comunque fedelmente:
Come se fosse stata sua figliola,
Accudendola sempre con premura
E come, chi è sordo, nulla sente.
Dopo che fu trafitto Eupite,
Dall’appuntita lancia di Laerte,
Forte gridò la divina Atena:
“Se tutti quanti, voi, mi sentite,
Sicuramente le ferite aperte
Daranno il via alla novena
Annunciante veramente la fine
Di ogni rancore e violenza.
Ora è tempo della vera pace;
Finito è il tempo delle spine.
Ulisse, uomo di grand’esperienza,
Dovrebbe farsi udire, e invece tace.
Parla, Ulisse, alla tua gente,
Dille che sei per sempre tornato,
Dille che vuoi un solo patto eterno,
Un patto per la pace solamente,
Un patto vero, dagli Dei ispirato,
Perché tu sei sovrano, ma paterno.”
E Ulisse parlò, parlò col cuore
E fu pace per la gente d’Itaca.
Giovani generosi , belli, fieri,
Giovani, ma credenti nell’onore,
Formarono una squadra mitica
Ed ebbero per il re buoni pensieri.
Agli ordini diretti di Ulisse
Fecero parte della stessa corte
E tutti festeggiarono felici.
Il comandante della guardia disse:
“Noi, che non temiamo la morte,
Saremo il terrore dei nemici.”
Nelle mani del re fu giuramento;
Ognuno s’impegnò decisamente
D’esser fedele al suo sovrano.
E vennero i giorni del tormento
Quando, Ulisse, diventò furente
E architettò un ardito piano.
Telemaco andava vendicato,
E quindi Ulisse tempo non ne perse;
Disse: “Dovran pagare gli assassini,
Perché è così che ha deciso il fato.”
Tra le guardie reali tre ne scelse,
Uomini forti e di cervello fini.
Da straccioni li fece travestire
E l’insinuò tra gli arroganti Proci;
Per poi spiare, e fare resoconto
Di quello che potevano sentire.

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Terza puntata

Occhiate di complicità veloci
E per difesa un pugnale pronto,
Fra taverne e il molo del porto.
Gozzovigliando tra gli accattoni
Sentirono parole d’assassini
E videro morir senza conforto.
Finalmente un gruppo di cialtroni
Che aveva passato i confini
Di qualsiasi decente sobrietà:
Dalle bocche gli usciva vanteria
E fra le inutili ottusità,
Di nomea una vera varietà,
Senza fare nessuna economia,
Fra cui Laedo; amara verità:
Lui scagliò la freccia assassina,
Laedo, capo di un gruppo marcio.
Con lui Conzelìo e Manedòrte,
Nemico di Atena l’azzurrina,
Assieme a Felàno e Decàrcio;
Quest’ultimo inteso “Braccioforte”.
Ma c’erano Seànto e Pilèrno;
Guardando le spalle all’assassino
Erano con gli occhi spalancati
E con quelle loro facce d’inferno,
Dietro l’angolo, lì poco vicino,
Sembravano essere inchiodati.
A fare i nomi furono costoro
Nel concludere la confessione:
“Antinoo è stato vendicato
- Dissero, perdendo ogni decoro -
Ma ci sarà una conclusione:
Anche Laerte sarà ammazzato,
Perché anche lui dovrà pagare
La morte dell’amico Eupite.
Verrà il turno poi di Ulisse,
Lui che non doveva ritornare:
Itaca era nostra, senza lite
E, da che era morto, lui rivisse.
La notte in cui Telemaco morì
Doveva pure lui esser trafitto,
Però la luna in cielo ci tradì;
Da una nuvola essa si scoprì,
Così il nostro piano fu sconfitto
Perché la totale vendetta svanì:
Ulisse è terribile guerriero,
Feroce, peggio di belva ferita,
Fuggimmo per non esser aggrediti
E d’affrontarlo non ci fu pensiero
Perché ci avrebbe levata la vita
E i sogni sarebbero finiti.”
Platìlo, Samiòne e Calèmaco,
Dopo ch’ebbero tutto riferito
Delle trame ch’avevano ascoltato
E dell’uccisione di Telemaco
Svelata ogni cosa, cadde il mito
Che da Penelope era stato amato.
La regina, di già addolorata,
Scoprendo il nome dell’assassino,
Fu colta da un attacco di follia.
Con l’anima del tutto straziata
Vide cambiare il suo destino
E non l’abbandonò più la pazzia.
Ulisse e Penelope distanti
Più di quanto si potrebbe pensare,
Ma la notizia appena arrivata
Seminò discordia per tutti i canti
in un palazzo, già in alto mare,
Dove la morte sembrò fosse nata.
Ulisse pensò, col cuore distrutto,
Ad Agamennone assassinato,
Pensò ad Oreste che lo vendicò
Nel momento in cui egli scoprì tutto,
Però non vide nessuno fidato
In quel momento in cui fantasticò.
Constatò che non ci sarebbe stato
Telemaco, suo figlio diletto,
Che l’avrebbe potuto vendicare
Se non fosse caduto assassinato
Ad opera di chi, nel suo letto,
Dalla sua donna s’era fatto amare.
Doveva farla lui la prima mossa;
S’impose di controllare gl’istinti
E radunò le guardie fedeli:
“Siamo al momento della riscossa
E penso che voi siate convinti,
Perciò vi chiedo di essere crudeli.
Questa notte faremo caccia grossa,
Ma siamo noi le belve stananti
Che non si potranno mai sfamare;
Seguiamo delle prede ogni mossa,
Siano essi soli, oppure in tanti,
Con il fuoco li dovremo stanare.”
Signori delle isole vicine,
In assenza del sovrano Ulisse,
A Itaca si erano installati,
Senza rispetto per nessun confine,
Vivevano già in dimore fisse
E nessuno li aveva cacciati
Perché mancava un’autorità.
Perciò, con arroganza assoluta,
Fecero ogni legge su misura:
Commisero tutte le meschinità
E ogni violenza sconosciuta:
D’Itaca era l’epoca più scura.
Dopo che vide il figlio cadere,
Notò nell’ombra alcuni fuggire,
Mentre dal cielo la luce lunare
Non permetteva poterli vedere.
Però lui sapeva come scoprire
Quegli assassini, e che cosa fare.
Quindi, Ulisse, come ispirato,
Prese in braccio il figlio caduto
Per trasportarlo nel tempio d’Atena.
Lì disse: “O dea, chi ha mirato,
Che paghi con la vita il tributo;
Non chiedo per lui altra pena.”
La dea dall’alto, come vedetta,
Notò il dramma del cuore di Ulisse
Ed ascoltò pur la sua preghiera.
Decise di concedere vendetta
E quindi si manifestò e disse:
“Abbi il cuore crudele, di fiera.”
Notte fonda, cominciava il gioco,
Scivolavano ombre sui muri;
Le belve eran pronte a colpire.
All’improvviso brillò il fuoco,
S’illuminarono i luoghi scuri,
Gli aggrediti presero a fuggire
Dopo che si sentirono insicuri:
Le fiamme stavano a lambire
I piani alti di palazzi e case.
Gli abitanti videro maturi
I maledetti tempi per uscire:
Non vi era scelta in quella fase.
Era armato di freccia nell’arco,
Ulisse, con la doppia faretra,
Scagliava come dio fulminante
E aprì per l’inferno un gran varco
- Dove si cala a piombo come pietra -
A quei nemici, in un breve istante.
Eccolo lì, Laedo, saltare giù,
Illuminato da una vampata
Nel vano alto di una finestra.
Ulisse , quasi, non ci sperava più.
Stava al momento per esser scoccata
La saetta che aveva nella destra,
Ma ripensò e svelto la ripose;
Vide che stava a breve distanza
E il nemico pensò d’agguantare;
L’afferrò e la rabbia riesplose
In tutta la sua esuberanza,
Convinto che lo doveva sventrare,
Però prima volle farlo soffrire:
Lo afferrò per la fluente chioma
E lo trascinò sulla nuda terra.
Quello capì che stava per finire
E della morte sentiva l’aroma,
Proprio come in sanguinosa guerra.
Quindi concluse quell’atrocità:
Pressandogli un piede sulla gola,
Lo infilzò, con l’arma, al basso ventre
E fu il momento della verità,
Che per Ulisse era una sola,
Senza pensare ad altro in quel frangente.
Laedo era morto, finalmente,
Odisseo lo guardò sanguinante
E lo immaginò mentre scagliava
La saetta che ferì mortalmente
Il figlio, vendicato in quell’istante;
Quel caro figlio che egli amava.
Quando il re Ulisse fece ritorno,
Laedo, da Itaca, era assente,
Perché ad Olimpia s’era recato,
Perciò non visse il dramma di quel giorno.
Al rientro la novità sconvolgente:
Dei Proci, il re, s’era vendicato.
Fu nell’apprender della brutta fine
Del fratello e poi anche del padre
- Opera di Odisseo e Laerte -
Che radunò le menti assassine,
Con la complicità pur della madre
Che non era rimasta affatto inerte.
Eppure con l’aiuto di Atena
La pace, ormai, sembrava raggiunta,
Ma c’è ovunque una mala pianta
E questa che apparve sulla scena,
Rivendicò una scusa presunta,
Che portò lutti nell’isola affranta.
I Proci tutti furono raggiunti
Dall’ira di Ulisse e dagli strali.
Nessuno di loro poté raccontare
Se si salvò qualcuno dei congiunti.
Niente orazioni e funerali,
Niente assassini da processare.
Quando già cominciava l’albeggiare
Ed eran ormai vuote le faretre,
Mentre grondavano sangue le mani,
Il re d’Itaca vide radunare
Sul sentiero costruito con pietre,
Ma dalla reggia non molto lontani,
Quei guerrieri da lui creati,
Comandati dal prode Calèmaco.
Si rivolse a costui Ulisse
E con accenni tanto meditati,
Come fosse il figlio Telemaco,
Con una mano in spalla, gli disse:
“Siete stati davvero eccellenti;
Come topi li avete stanati:
Mio figlio è stato vendicato
E voi sarete sempre presenti
Qui nel mio cuore, e considerati
I pilastri di un trono salvato.
Calèmaco, farai le mie veci
Ogni qual volta ch’io sarò lontano.
Spero ti comporterai da saggio,
D’annoverare tra i migliori greci.
Questo, per ora, è il mio piano;
Voi, vedrete, ne avrete vantaggio.
Ora andate tutti a riposare
E ricordate: quel che s’è fatto
Deve restare il nostro segreto.
In nessun caso si deve parlare;
Questo dev’essere tra noi il patto:
E son parole che io non ripeto.”
Comunque Ulisse non trovò pace.
“M’aspettava la moglie infedele
E tornando ho perso mio figlio
- Rifletteva con in cuore la brace -
Ho un destino davvero crudele:
Dea Atena, dammi un consiglio.
Forse io non dovevo tornare?
Forse dovevo restare lontano?”
Si chiedeva spesso l’infelice,
Ma la rabbia non voleva scemare.
Poi pensò che tutto era vano
E la sconfitta vera vincitrice.
Ulisse rientrò, passo leggero,
Salì le scale fino al primo piano,
Attraversò il grande corridoio
E nel cuore gli si scioglieva un cero.
Ma quel palazzo in cui era decàno
Gli fu, dell’anima, maceratoio.
Con lenta andatura passò davanti
A quella porta aperta della stanza
Il cui talamo, gran ceppo d’ulivo,
Adesso era frutto di rimpianti.
Lì, Telemaco, perduta speranza,
Era nato in un giorno festivo.
Per terra, all’estremità del letto,
Rannicchiata come un vecchio cane,
Penelope con la grave demenza;
Senz’alcun’amore nel suo petto,
Non convinta dell’errore immane
Perché ormai non aveva coscienza.
Ulisse proseguì il suo percorso,
Quindi si distese su una panca,
Dove da un’ancella fu raggiunto.
Lei lo spogliò e lui girò il dorso,
Si fece lavare da dritta a manca
E poi con del balsamo fu unto.
Appariva stanco e con più anni,
Senza vitalità, senza coraggio.
Sembrava svanito il gran guerriero,
Incapace d’affrontar gli affanni
E nella mente fisso un viaggio
In cui affondar ogni pensiero.
Il sole alto del nuovo mattino
Gli portò un sonno ristoratore
Che sembrava volerlo ritemprare
Mentre entrava dal regal giardino.
Vide in sogno il figlio trafitto,
Per terra lo vide agonizzare
Ed oscurarsi il sole all’improvviso.
Vide rinascere il suo conflitto,
Non poteva più neppure sognare,
E un cupo orrore gli sfiorò il viso.


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SECONDA PARTE


La morte di Laerte

Penelope, senz’amore nel petto,
Sfiorava appena le sue pietanze.
Perso ch’ebbe il ben dell’intelletto
Girava inutilmente per le stanze.
Chiamava sempre il figlio perduto,
Come se fosse quello ancora vivo.
Chiamava quel nome ormai muto
Della sua vita unico motivo.
Lei non capiva affatto che Laedo
Chiamato traditore, assassino,
Dalla vita aveva preso congedo
Per volere d’un sovrano destino.
Eppure lo chiamava e chiamava
Ulisse, il suo tradito sposo,
Il quale, però, più non la guardava,
Per il suo cuore sempre sospettoso.
Girava per palazzo e giardino,
Girava, lei, con gli occhi assenti
Come volle il potere divino,
Per tutte le sue colpe cocenti.
Ulisse non aveva più nemici,
Ma pensando quel caro figlio morto,
Viveva i suoi giorni infelici,
Convinto d’aver subito un torto.
Luna piena, schiariva tutt’intorno,
Sulla battigia l’onda del mar calmo
Illuminata come in pieno giorno
E Ulisse contemplava il palmo
Della sua forte, robusta mano
Come volesse leggere il destino.
Muoveva qualche passo, piano piano,
Come se fosse un vero felino.
Aveva accanto il suo pupillo:
Calèmaco, cioè, colui il quale
Doveva tener alto il vessillo
E del regno essere il fanale.
Parlarono di cose del futuro.
Ulisse manifestò un bisogno:
Rompere decisamente un muro
E mettersi all’interno d’un sogno.
“Voglio partire - disse - andar via
Voglio solcare di nuovo il mare.
Vivere qui, per me, è agonia;
C’è un luogo dove voglio andare:
Nel regno d’Eolo voglio tornare,
Ché somiglia tanto a questa terra;
Voglio ritornare a navigare:
Sono stanco di sofferenza e guerra.”
Calèmaco intervenne dicendo:
“Mio re, difficile è il tuo dramma,
ma io son sicuro che intendo
qual è il fuoco della tua fiamma.
Quando tu partirai sarò solo,
Perciò non credo d’essere contento.
Chi potrà guidarmi nel mio ruolo?
Non voglio pensare a quel momento.”
“Calèmaco, sei d’animo forte
- disse Ulisse - tu, caro figliolo,
Con la fedeltà fino alla morte,
Certamente svolgerai il tuo ruolo.
All’alba farò dei sacrifici,
Sulla sabbia, qui, di fronte al mare,
Agli dèi, perché siano amici
E mi diano il coraggio di salpare.
Sacrificherò al dio Nettuno
Perché protegga il mio naviglio
E perdoni l’arrogante “Nessuno”
Che gli accecò l’adorato figlio.
E al dio Apollo sacrificherò
Perché mi guardi da qualunque male,
A lui devotamente mostrerò
Il mio affetto che è sempre uguale.
Sacrificherò alla dea Atena,
Sulla mia strada sempre onnipresente,
Che mi assiste in qualunque pena.
Spero che ora non sia assente.
E voglio sacrificare anche per te,
Che proprio come figlio mi sei caro,
Destinato a sostituire me
Su quel trono da cui mi sepàro.”
“Mi chiedo come mai hai scelto me
- Intervenne Il Calèmaco, schietto -
E non mi spiego il motivo, o mio re,”
Ma ne sono orgoglioso, e lo ammetto.”
“Tu certamente ignori quale sorte
Toccò ad un mio amico generoso
Il quale in vece mia scelse la morte:
Grande guerriero, forte, vigoroso,
Dal ventre del cavallo ingannatore,
Fino alle porte m’aveva seguito
E le aprimmo al notturno chiarore,
Che fu per tutti gli Achei un invito.
Il nome di costui era Olchenòre
E a Troia salvò la mia vita.
Si, era lui, il tuo genitore,
Morto d’eroe per grave ferita.”
Il giovane, allora, fermò il passo,
Guardò fisso negli occhi il re Ulisse,
Come sorpreso s’appoggiò a un gran masso
E quindi con sguardo triste gli disse:
“Tu, dunque, di mio padre eri amico?”
“Lo ero, così come tu lo sei per me
- Rispose Ulisse – ma ora ti dico,
E se già non l’ho fatto, saprai perché:
Avrei voluto il mio successore
Scelto fra tanti giovani fedeli,
Tutti coraggiosi e di valore,
Guerrieri con i nemici crudeli.
Non volevo essere influenzato
Da sentimenti o affetti veri,
Quindi sei stato da me controllato
E ti ho scelto per darti i poteri
Per meriti che hai conquistato
Senza dover nessuno ringraziare,
Né me, che come figlio t’ho adottato,
Né chi ti ha voluto generare:
Quel grande uomo che con me è partito
Nella guerra che gli portò sventura,
Dove come un’ombra m’ha seguito
Ignorando che sia viltà e paura.
Di padre valente navigatore
Che divise col mio le avventure.
Olchenòre, occhi di sognatore,
Immaginava imprese future
Allor che giocavamo da bambini
Fra le onde del mare e la boscaglia
E confondendo spesso i confini
Di una realtà che non si staglia
Netta nella conoscenza infantile,
E son distanti morte e sofferenza.
Durante il viaggio della freccia vile,
Lui, per sua eroica deferenza,
Mentre io, di spalle nella lotta,
Ero il bersaglio netto designato,
Decise all’istante la condotta
Di porsi innanzi al dardo scagliato.
Lo vedo qui, come fosse davanti,
Era battagliero, imponente,
Mi sembra di riviver quegl’istanti
In cui non l’ostacolava niente:
Falciava i troiani come grano;
Nessuno resisteva davanti a sé,
Sembrava avesse la folgore in mano,
Ma scelse di morire per il suo re:
Quando si spense mi lasciò un dolore
Che non riesco bene a confessarti,
Quasi di viver mi tolse il sapore
Pensando alla notizia da darti.
Ora tu sai, e puoi esser fiero,
D’un genitore tanto generoso
Che dovrai portare nel pensiero
Nella tua vita di re valoroso.
Così, a Troia, persi quell’amico
Che mi permise di vivere ancora,
In un tempo che mi rende antico,
In questa triste attesa dell’aurora.”

..............................

Seconda puntata

Rimasero ancora sulla spiaggia,
Discussero ancora tante cose
In maniera davvero triste e saggia,
E il re in un mite pianto esplose.
E venne, finalmente, l’alba attesa.
Sulla spiaggia, i fedeli amici
Terminavano la loro impresa
Di preparare i giusti sacrifici.
Erano pronte quattro pile di legna,
Sopra ciascuna un grosso montone
E come l’antico rito insegna,
Lì, Ulisse fece un’orazione
Con il pensiero ai potenti numi,
Intanto che appiccava il fuoco
E s’innalzavano i suoi lumi
Purificanti con il loro gioco:
“O déi potenti nell’immenso cielo,
Perdono chiedo se vi feci torto
E liberatemi il cuore dal gelo
Per quel rispetto che io vi porto.
Poseidone, gran dio del mare,
Perdona, pure tu, quest’infelice
Che Polifemo volle accecare
Sol perché la paura fu motrice.
Apollo, prediletto fra gli dei,
Perdono chiedo, perché io sono
Responsabile per gli uomini rei
E, pertanto, io non li scagiono,
Poiché quella carne hanno mangiato
Dopo ch’ebbero uccisi i sacri buoi,
In un momento tanto sciagurato,
Senza pensare ch’erano i tuoi.
E tu, mia protettrice, Atena,
Ti prego, proteggi pur Calèmaco.
Se tu gli rendi l’anima serena
Prenderà il posto di Telemaco.”
Allora, spinto dall’emozione,
Calèmaco, indotto dall’istinto,
S’inginocchiò in sottomissione
Ché dal destino era stato vinto.
“O dèi, mi sento in un artiglio
- Disse - indegnamente onorato.
Lui, che ha perso l’unico figlio,
A tanta dignità mi ha elevato.
Nell’esprimere il mio concetto
Dichiaro d’elevare una stele,
Di dare al regno un buon assetto
E, qui, prometto d’essergli fedele.”
Erano a banchettare gli dèi,
Quando giunsero loro le preghiere
- Di due fra gli uomini meno rei -
Constatando che erano sincere.
Cara a Giove, la sapiente Atena
Decise d’intercedere, e parlò,
Indotta dall’amore e dalla pena,
Di fronte a tutti gli dei si alzò:
“Datemi ascolto: Zeus, gran padre,
Fra tutti gli dei onnipotente
E tu, Era, fra le dee leggiadre,
E chiunque la mia voce sente.
Noi, che sull’Olimpo dimoriamo,
Le nostre debolezze e pretese
È giusto che adesso ignoriamo
E le preghiere siano intese.
Ulisse, quell’eroe sfortunato,
Non merita più tante contrarietà
Ora che finalmente è ritornato
A casa dopo tanta ansietà.
Quest’uomo, che c’innalza le preghiere,
Dobbiamo ricordare ch’è tornato
Senza lo sventolio di bandiere
E ora ha il cuore martoriato.
Questo re, a noi, chiede il perdono
Per qualche colpa che avrà commesso.
A un re, che sta cedendo il trono,
Quello che chiede gli sia concesso.
Nettuno potrà esser soddisfatto
Del pentimento tanto manifesto,
Perciò è giusto che ne dia atto
In questo tanto solenne contesto.
D’altronde Polifemo ha mancato
Nel nobil senso dell’ospitalità,
Con chi cercava d’essere sfamato.
E ha commesso, così, grave viltà.
Lo stesso Apollo sa quanto soffrì
Il grand’uomo senz’aver quella colpa
Che egli stesso subito aborrì.
Credo che basti ciò come discolpa.
Zeus padre e tu, dea Giunone,
Tutti, sorelle e fratelli miei,
Manifestiamo la comprensione
Di veri, grandi, generosi dèi.
Anche perché, come uomo, Ulisse
Resta un vanto per questa regione
- Poi con orgoglio la dea disse -
Qui l’Olimpo ha ubicazione.”
“Certamente, Atena, figlia mia,
E’ efficace la tua difesa.
Il non capire sarebbe miopia.”
Disse Giove, parlando a sorpresa.
Poi, il dio, continuò dicendo:
“Ulisse dovrà esser perdonato
E soprattutto, di certo, intendo
Che questo guerriero va aiutato.
Poseidone, Apollo udite:
Atena non può che aver ragione.
Voi, spesso, gli uomini atterrite
Concedendo soltanto l’illusione
Di qualche istante di felicità.
Ad Ulisse, ciò, è stato concesso,
Ma dopo, ecco l’amara verità;
Il suo destino rimane lo stesso:
Felice d’aver vinto i Troiani,
Ostacolato nel fare ritorno;
Felice di toccare con le mani
Le pietre d’Itaca nel nuovo giorno
Di una vita da ricominciare,
Ma poi sappiamo quale avventura,
Suo malgrado, dovette affrontare,
Indossando di nuovo l’armatura.”
Nettuno si alzò e veemente,
Gesticolando con il suo tridente,
Si apprestò a fare un intervento
E disse ciò che aveva nella mente:
“Qualunque cosa Polifemo fece,
Non posso graziare quest’Ulisse
Che annegherei dentro la pece.
Già mi par troppo che Troia sconfisse.
Il ciclope è, pur sempre, figlio mio,
E quel mortale me lo ha accecato;
Pur egli essendo figlio di un dio,
È stato così tanto sfortunato,
Persino, e soprattutto, nell’amore:
Non ha avuto quello che sognava,
Pertanto, solo e pieno di furore,
In mezzo al gregge e con la sua clava,
Lui se ne stava, lontano dal mondo.
Poi è giunto quel giorno maledetto,
In cui Odisseo, il vagabondo,
S’è presentato al suo cospetto.
- Continuava il dio nell’assemblea -
A Polifemo, avverso fu il destino,
Avversa fu la ninfa Galatea,
Ma più nocivo Ulisse ed il vino…
Se Galatea amasse Polifemo,
La specie sarebbe incrementata,
Però, sinceramente, io temo
Che questa stirpe sarà annientata.”
Ma più in là andava l’argomento.
Nettuno aveva pur altro nel cuore:
Egli era con Atena virulento,
Non le poteva portare amore.
Di certo, Odisseo, ignorava
Che tra Atena e Poseidone
- Quando neppur Giove se l’aspettava –
Ne era nata una questione.
Ulisse non l’avrebbe sospettato:
Per far dispetto alla dea Atena,
Comunque, avrebbe su lui riversato
Il suo rancore, senza alcuna pena,
Il sommo dio dell’immenso mare,
E per lunghi anni avrebbe impedito
Che lui potesse ad Itaca tornare.
Infatti così racconta il mito:
Quando nacque il serio dilemma
Di come chiamare la città greca,
Che fra tutte risulta esser gemma,
Giove assistette ad una vera bega
Tra Poseidone e la dea Atena:
Chi, di lor, il nome le avrebbe dato?
La cosa, per Zeus, non fu amena,
Ma il dio, ch’era ben intenzionato,
Disse: “Chi di voi darà alla città,
Entro la scadenza a tempo breve,
Qualche cosa di grande utilità
Io dico che, il suo nome deve.”
E, come sempre, arbitro fu Giove,
Ma ad Atena diede l’avallo
E, guarda caso, proprio laddove
Nettuno fece dono del cavallo;
Da che ancora l’uomo l’ignorava.
Ma Atena disse: “Dono l’ulivo.”
E così, lei, se l’aggiudicava.
Nettuno, si sentì colto nel vivo.
Dell’ulivo, non colse l’importanza,
Per quella gente, perciò, adirato,
Fu vinto dalla sua arroganza,
E le portò rancore continuato.
Da quel momento si chiamò Atene,
Anziché essere Poseidonea,
Un nome che per tutti suona bene,
Una parola per nulla erronea.
Ma il dio del mare non si trattenne
E diede sfogo al suo furore,
Tanto che suo bersaglio divenne
L’eroe che ad Atena stava a cuore.
Odisseo, non poteva sapere
Che, se pur mai lo avesse offeso,
Lui, quel dio doveva temere;
Un dio che all’egoismo s’era arreso.
Il dio Apollo, in quella sede,
Ebbe modo di dare chiarimenti:
“Io, che non sono in malafede,
Dico a tutti voi, qui presenti,
Che Ulisse ha già pagato tanto,
Se colpe veramente ha avuto.
Non mi commuovono lutto e pianto,
Ma al suo pentimento ho creduto.
Sono sempre disposto a graziare,
Ma è sott’occhio e sarà punito
Il giorno in cui dovesse sbagliare.
Ora accetto preghiera e rito.”
Eran le pire già consunte al fuoco,
Lasciando un lezzo di carne bruciata,
Il sole era già in alto loco
E Ulisse sulla sabbia bagnata.
Solo Calèmaco gli era rimasto
Accanto per tenergli compagnia
Davanti all’onde del mare vasto
E in lui vedeva la malinconia.
“Mio re – disse il prode pupillo,
Dopo che il passo ebbe fermato –
Perché non cacci via quell’assillo
Che ti appare sul volto stampato?
Credo che gli dèi t’abbiano ascoltato.”
“Son certo che nessuno sopravvisse,
Sicuramente, ciò lo dò scontato,
Dico dei Proci – disse Ulisse -
In quanto agli dèi, non son sicuro:
C’è chi non crede ch’io sia pentito,
Eppure che lo sono io giuro,
Ma non gli basta quanto m’ha punito.
Ma tu, figliolo, rientra, adesso;
Lasciami qui, voglio restare solo.
Voglio che tu non mi veda depresso,
Ammantato del mio grave dolo.”
“Certo, mio re, come vuoi farò;
Rispetto la tua autorità.
Se tu vuoi così, io me ne andrò.”
Rispose come ad un deità.
Appena Calèmaco andò via,
Vide una presenza conosciuta,
Fu destato dalla sua abulia
E comprese perché era venuta.

................................

Terza puntata

Minerva, in tutto il suo splendore,
A cui l’orazione era rivolta,
Gli disse lesta: “Non aver timore:
La tua preghiera è stata accolta,
Ma Nettuno non intende ragione.
Sembra non avere dimenticato,
Ma giungeremo a conclusione.
Ascolta, ora ch’è addormentato:
Su questa spiaggia, tu, domani sera,
Risolverai bene la questione:
Sacrifica una bestia intera
Ed innalza a lui un’orazione
Con la quale chiaramente dirai
Del tuo pentimento rinnovato
E ciò che a lui tu dedicherai
Non appena alla meta arrivato.
Ascolta, Ulisse, queste parole:
In quel viaggio, che intendi fare,
Ti fermerai nell’isola del sole,
Però i buoi sacri non toccare.”
La dea spiegò ogni percorso
E l’istruì su come conquistare
Poseidone, col suo concorso,
E poi lo lasciò a meditare
Di fronte al mare limpido, da solo,
Tentando di scacciar pensieri gravi,
Con lo sguardo fisso verso il molo
Dov’erano ferme le sue navi.
E mentre progettava col pensiero
Vide Erinna venirgli di fronte,
Ulisse le sembrava austero,
Ma le parole fecero da ponte.
Quando la donna, con gli occhi bassi,
Si stava avvicinando ad Ulisse,
Dopo aver fermato i suoi passi,
Guardò in faccia il suo re e disse,
Mentre gli accarezzava il viso
Ed appariva del tutto commossa:
Aveva gli occhi d’un triste sorriso,
E in realtà si sentiva scossa:
Chissà per volontà di quale dio
La tua vita è tutta un tormento,
Che poi è diventato anche il mio,
Per l’errore fatto in un momento.
Mio re, per te ho grande rispetto
E questo mi ha spinta a riferire,
Non certo per fare qualche dispetto,
Nè tanto meno per farti soffrire.
Ulisse, la regina è disfatta
E nel vederla sento uno strazio;
La sua vita è ormai sciatta
E per l’orgoglio non trova più spazio.
La perdita del figlio l’ha distrutta,
Non c’è più niente che la rende viva;
La scala, lei, l’ha discesa tutta
Ed è buia la sua prospettiva.
Mio sovrano, sono addolorata:
Io penso sempre che per colpa mia,
Che ho agito da gran sciagurata,
S’è innescata la tua gelosia,
Per cui non riesci più a guardarla
E del suo letto ne fai a meno.
Io la sento che da sola parla
Da quel letto che ti sembra osceno.
Per colpa mia l’atroce sentenza.
Non c’è tuo figlio e non hai l’amore
E capisco qual è la sofferenza
E quanto sono vuote le tue ore.
Anche le mie, Ulisse, lo sono,
Da quando io, figlia di Lepito,
Giocavo sempre attorno al trono,
Fino in età quasi da marito.
Mio padre era il comandante
Della flotta dei navigli reali,
Ma, in una tempesta devastante,
Scomparve tra le onde e gli strali…”
"Si, e ricordo come t’ha lasciata:
Era d’inverno e fu di mattina
Quando quella nave fu affondata
E tu non eri che una bambina.
Se lo portò via la mareggiata;
Tante ricerche, dopo la tempesta,
Ma la sua salma non fu ritrovata…
Quel tuo pianto ce l’ho qui in testa.”
Così rispose Ulisse, scorato,
Poi disse, ancor, con voce fiacca:
"Ma tu, dimmi, perché m’hai cercato?”
E guardava, assente, la risacca.
“Ulisse - rispose Erinna lesta -
Io, a te, qui, voglio confessare
Quello che ho in cuore e in testa,
In modo che tranquilla possa stare.
Ascolta, Ulisse: quando tu partisti
Per quella più che maledetta guerra,
Bello com’un dio con gli occhi tristi,
lasciando la famiglia e la terra,
Io contavo quattordici anni,
Ero già diventata una donna
E conoscevo anche i malanni,
Tu eri per me l’unica colonna
Su cui poggiava la vita del regno,
Eri per me un idolo vivente
Ed eri tu, degli dèi, un segno;
Ma eri un faro, per tutta la gente,
Che poi si spense quando andasti via.
Il mio amor per te è stato immenso,
Degli altri uomini avevo fobia;
Ma dirlo adesso non ha più senso.
A chi t’avesse fatto un’offesa,
A maggior ragione dietro le spalle,
Mi sarei sentita parte lesa
E l’avrei strappato come percalle.
Tu sei uno che non si tradisce,
Sei l’eroe grande, generoso
Per il quale l’amore non finisce,
Perché sa essere affettuoso.
Infatti, tu, per questo, sei tornato,
Vincendo ogni tresca e affanno,
Per amor di chi avevi lasciato,
Ma hai trovato grave inganno.
Se io t’ho riferito quel ch’è stato
- Che io vada dritta all’averno -
L’ho fatto perché non ho sopportato
Che tu fossi un oggetto di scherno,
Per colpa di chi faceva credere
D’averti aspettato con passione,
Senza lasciare mai intendere
Ch’aveva già trovato un adone.
Dacché nel cuore sento di amarti
- Dato ch’io non ho un uomo mio -
Sono venuta fin qui a cercarti.
Se non te lo vieta qualche dio,
Tu puoi venire nel mio letto
Ed io il cuore te lo scalderò
Con tutto l’amore che ho nel petto
E poi, con te gli dèi pregherò.
Adesso, Ulisse, io vado via,
Ti lascio ancora qui a meditare;
Quello che sceglierai così sia,
Ma sappi che su me tu puoi contare.”
Fiamme di pira, alte, quella sera;
Il cielo, su, sembravano toccare.
Ulisse innalzò la sua preghiera
Mentre s’illuminò l’onda del mare.
La dea Minerva, in quel momento,
Avvertì il grande Poseidone
E disse: “Puoi essere contento:
Odisseo t’innalza un’orazione.”
Il re dei flutti osservò la scena,
Di fronte al mare, su quell’arenile,
Vide Ulisse, ammantato di pena,
Che pregava, in maniera gentile.
“Intendi, Nettuno, che cosa dice?
A Galatea sarà dedicata
- Perché di Polifemo incantatrice -
Tutto il centro di una vallata,
Sperando che si possa innamorare
Del ciclope solo e disperato,
Che possa confortarlo e perdonare
Poiché il suo Aci ha assassinato.
Mentre a tuo figlio accecato
Un grande antro che guarda il mare,
Ancora prima, sarà dedicato
E nessuno potrà dimenticare:
Grotta di Polifemo sarà detta
Perché del ciclope sia ricordo.
Dell’originale è copia perfetta.
A ciò non puoi tu rimanere sordo.
Fargli male, ancora, non è giusto;
Tu lo sai che ha tanto sofferto;
Perseguitarlo oltre, non c’è gusto.
Lascia che vada sul mare aperto.
Far non vuol altro che dimenticar
Tutto quello ch’è fonte di ricordi,
Dal luogo dell’infamia scappare
E noi non possiamo essere sordi.
-E quindi continuò - Poseidone,
L’uomo non può essere ignorato
Nel momento che fa un’orazione,
Specialmente se pene ha scontato
E finalmente risulta pentito
Delle sue colpe complessivamente.
Adesso, Nettuno, io t’invito
Ad ascoltarlo pazientemente.”
“Capisco che sei interessata
- Disse Nettuno, quasi sorridente -
Ignorerò quell’anima straziata
E finirò di essere furente.”
Le fiamme sacrificali, già spente,
Indussero Ulisse al ritiro,
Ma un pensiero nuovo nella mente
Gli fece fare un grande sospiro.
“Può darsi che Erinna m’aiuterà
A prendere sonno e riposare
In questa notte che si inoltrerà,
Così a null’altro potrò pensare.”
Il Laerziade era convinto
Quindi si cominciò ad avviare.
Da un bisogno sembrò essere spinto
E nel palazzo pensò di rientrare.
La stanza d’Erinna la conosceva,
Ma da un’eternità non vi entrava,
Da quando piccolina, lei, piangeva.
Adesso quella porta rivarcava,
Ma non per coccolare la bambina.
Constatando la sua fragilità,
Scostò con due dita la tendina
E in un momento si trovò di là.
Erinna, sotto veli trasparenti,
Ben con Venere reggeva il confronto,
Ulisse l’ammirò, senza commenti,

........................

Quarta puntata

Chiedendosi se si sentiva pronto.
Lei non s’aspettava complimenti,
Gli tese la mano, stando sul letto,
Con in viso i suoi sentimenti
E arrossendo al di lui cospetto.
"Tu mi fai onore, o mio re,
Mi ripaghi della mia fedeltà.
Dimmi: questa notte, vuoi ch’io sia per te
Un piccolo sprazzo di felicità?”
“Erinna, sono io onorato
- Rispose, il re, riuscendo in fine a dire -
Posso accettare d’esser consolato,
Ma a me stesso non posso mentire.
Io cerco, in vero, una speranza
E tu mi dài un’occasione;
Non potevo perdere, in sostanza,
Ciò che può venire dall’evasione.”
Li passò la notte e fu amato
E poi prese sonno su quel letto,
Dormì come un uomo appagato
Assaporando quello ch’è l’affetto.
Erinna, un gran dolce diversivo,
La vita gli fece assaporare,
Ma nella mente un pensiero vivo
A cui non voleva rinunciare.
Troppe ferite, rimaste aperte,
Lo consigliavano continuamente
Di partire, però c’era Laerte.
Fin quando fosse stato vivente
Mai più l’avrebbe fatto soffrire.
L’unico bene che gli era rimasto,
L’unico per cui poteva dire
Di sopportare qualunque contrasto.
Odisseo non si diede scadenza,
Pur non inseguendo una chimera,
Anche perché, prima della partenza,
Voleva capir a qual punto era
La capacità di ben governare
Di quel che era il suo pupillo:
Se stesso voleva tranquillizzare;
Questo, per lui, era un assillo.
Quindi decise che doveva dare
Qualche consiglio ai suoi fedeli;
Fare capire come governare
Senza bisogno d’essere crudeli.
Erano là, tutti, a conversare,
Nell’ampio salone del gran trono,
Videro trafelato arrivare
Eumeo, il pastore, che prono
Si mise di fronte al suo sovrano
E disse in un modo allarmato:
“Vengo dal campo sopra il ripiano:
Laerte, all’improvviso, è spirato.”
Lesto, Ulisse, dal trono si levò
E andò verso il vecchio pastore,
Intanto che il mormorio scemò,
Mentre il re provò un gran dolore.
“Racconta – gli disse – com’è successo?
Nessuno c’era per dargli soccorso?”
“Invero, io gli stavo d’appresso,
Così ad ogni mezzo ho ricorso
- Rispose Eumeo, avvilito -
Ma non c’era proprio niente da fare.
Se tu lo vedi sembra assopito.”
“Andiamo, lo dobbiamo trasportare
- Disse il re, con gli occhi lacrimanti -
Mio padre, qui dev’esser portato:
Venite, ora, con me tutti quanti;
Egli deve essere onorato.”
Quando il corteo fu arrivato
Dov’era morto il vecchio Laerte,
Ulisse vide il padre amato
Lì per terra, disteso e inerte.
Era tra i più grandi naviganti;
Nella sala del trono fu portato,
Dove i visitatori furon tanti,
E il figlio Ulisse fu consolato.
Laerte, eroe tra gli eroi,
Fu quello che doveva divenire
- Tra gli argonauti, amici suoi -
Colui che poi ebbe a patire
Per l’assenza ventennale del figlio.
Lui , eroe, d’eroe genitore,
Visse da solo, senza alcun consiglio,
Facendo l’umile agricoltore.
Ma visse con dignità e onore.
Poi venne la notizia terribile
E fu colpito da tanto dolore
Per un lutto cosi indicibile:
Soltanto poco tempo era durata
- Da quando Ulisse era tornato -
La gioia della notizia sognata,
Che si trovò con l’animo piegato.
Al funerale del tanto amato
Giovane, rispettoso Telemaco,
Al suolo, lento, s’era accasciato,
Colto da fitta sopra lo stomaco.
Quindi a casa fu accompagnato,
Appena il dolore si acquietò.
Il vecchio cuore era ormai ammalato,
Ma lui a nessuno lo confessò.
Aveva avuto molti dispiaceri,
Vissuti con grande rassegnazione
E divennero incubi i pensieri;
Così volò lungi d’ogni passione.
Al mese dalla morte di Laerte
Il re parlò dallo scanno reale
E le parole erano incerte
Come se stesse a fare del male
A persone a lui molto care.
“Amici - disse - per l’ultima volta
In mezzo a voi voglio restare.
La mia vita è ad una svolta
E non sarà qui il mio domani.
Io vado via col cuore tranquillo
Perché il trono è in buone mani,
Quelle del fedele mio pupillo.
Una promessa mi dovete fare:
La regina voglio sia accudita
E la dovete sempre rispettare;
Che sia curata e riverita.
Quanto a Erinna, la cortigiana,
Per un debito di riconoscenza,
Ella starà nella zona soprana;
Avrà della regina l’incombenza.
Amici, non ho più tanto da dire,
Lascio il mio regno in vostre mani
Spero non me ne abbia a pentire
Se dovessi tornare un domani.”
Calèmaco si sollevò in piedi
E, con l’umiltà del beneficiato,
Disse: “Quelli che qui tu ora vedi
Massima fedeltà abbiam giurato:
Nessun di noi si macchierà mai
Dell’onta di non aver eseguito
Quel che chiedi e questo già lo sai
Ed ora, io, loro tutti invito
A fare un solenne giuramento.”
Tutti s’alzarono, al re rivolti,
Però il sovrano, in quel momento,
Fu sorpreso con gli occhi distolti.
Calèmaco gli lesse nel pensiero
E quindi si unì al folto coro:
“E’ con questo giuramento sincero
Che dedichiamo il nostro lavoro
Al buon governo di tutto il regno,
E certo puoi essere contento:
Ognuno di noi di te è degno
Perché segue il tuo insegnamento.”
Stava per concludersi quel momento
E Ulisse disse ai suoi fedeli:
“Di ricordarvi un’altra cosa sento:
Della mia mèta nulla trapeli.
- Senza preamboli lui esordì -
Amici, come ho detto, vado via.
Non dite niente: ho deciso così.
Questa rimane la volontà mia.
Del mio dramma siete testimoni,
Dunque, sicuramente, mi capite.
Non fatevi cattive opinioni,
Amici che adesso mi sentite.
Calèmaco è stato già preposto
E lui sul trono mi succederà.
La mia pace mi chiede un costo
E la mia storia questo pagherà.
A lui dovrete l’obbedienza.
Tra di voi i ministri sceglierà,
A seconda della sua coscienza,
Ma allorquando tutto valuterà.
Adesso sceglierò i marinai
E la migliore nave farò armare.
Calèmaco, manda gli operai
Perché voglio da lor far caricare
Alcuni regali degni di un dio:
Le migliori stoffe e vasellame,
Avorio, oro che a parer mio
Fanno onore al nostro reame.
Non potrei mai dimenticare
L’accoglienza che Eolo m’ha fatto,
Ora io vorrei ripagare
Con dei doni che sembrano l’atto
Di un sovrano che sa onorare
L’atteggiamento del benefattore.
Io fin da lui voglio arrivare
E riverire quel grande signore.
Sulla sua terra voglio restare,
Sognare di un amore fedele.
Lì, forse, restare ad invecchiare,
Scacciando ogni pensiero crudele.
Io parto con l’alba di domani.
Nessuno sappia dove son diretto,
Così nessun farà pensieri strani:
Ormai di tutto, io, m’aspetto.
So che lascio un trono rafforzato,
Ma signori dell’isole vicine,
credendo che non sia tutelato,
Potrebbero pensare che, infine,
L’esempio dei Proci va seguito.
Ognuno di voi è fautore
Del destino di ciò ch’è ormai un mito:
Mio padre è stato il fondatore
Del regno che adesso io vi dono.
E se, come un ladro, scappo via,
A lui dovrei chieder perdono,
Ma la colpa non può essere mia.”


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TERZA PARTE

Nel mitico regno di Eolo

La nave di Ulisse, vela al vento,
Lasciato il porto, via se ne andava.
Erinna, con il cuore in tormento,
L’osservava mentre si allontanava.
Le lacrime le bagnavan il viso
E, in un susseguirsi di singhiozzi,
Ebbe uno scatto all’improvviso
Proprio come chi vuole dare cozzi,
Strappò ad un armato li accanto
L’arma appuntita appesa al fianco
E con il viso solcato di pianto
Si sferrò un brutto colpo manco.
Erinna si accasciò rantolando
E la sua storia si concluse lì.
L’uomo, di cui il fatale brando
Segnò la fine della donna così,
Non ebbe tempo di rendersi conto
Di quell’estremo atto avventato
Che di Erinna segnò il tramonto
All’alba d’un arenile bagnato.
Di tutto, ella, aveva tentato;
Non intendeva essere lasciata,
Ma il suo re non era innamorato,
Perciò, lei, delusa e disperata,
Non voleva più vivere da sola,
Non voleva più perdere l’amore,
Non sopportava quel nodo alla gola
E quella sua vita incolore.
Mentre la nave si allontanava,
Della vita perdeva il sapore,
Sentì che il suo silenzio urlava
E decise di trafiggersi il cuore.
Mai, Ulisse, seppe la verità;
Lui procedeva, sospinto dal vento,
Verso una fantastica realtà,
Verso un rinnovato sentimento.
La prua dritta verso occidente
Portò Ulisse alla sua meta,
Ma il passato gli era presente,
E si struggeva nell’anima inquieta.
Sopra i flutti il tempo scivolava,
Gli déi, tutti, una volta tanto,
Cullavano Ulisse che sognava
La sua meta come un incanto.
Dieci giorni sul bel mare aperto,
La terra, ogni tanto, costeggiando,
Ulisse, in cuor suo, era certo
Che gli dei lo stavano guidando.
Intanto il timoniere sospirava,
Tenendo il suo sguardo sopra Ulisse,
Quindi col dito il mare indicava,
Per esplicare un pensiero, e disse:
“Tranquilli, ancora, non possiamo stare;
No, non possiamo, almeno fin quando,
A noi, non riuscirà di superare
Le Sirene che staranno cantando;
Le belle, maledette incantatrici,
Che attendono al varco i marinai,
Sul loro scoglio, le divoratrici
Di uomini che non torneran mai.”
Ulisse, con lo sguardo sulla costa,
Vide scogli che non v’erano prima,
Quindi parlò e diede una risposta,
Intanto che legava una cima:
“Per noi, il pericolo maggiore
Non sono certamente le Sirene;
Ben altro deve essere il timore:
Pericolo certo, per noi, proviene
Da Scilla e Cariddi, sullo Stretto:
Tra quei mostri dovremo passare
E stanno l’uno all’altro di rimpetto.
Spero che un dio ci possa aiutare.
Ora gli orecchi tappiamo, con cera;
Tra poco le Sirene avvisteremo
- Faccia così chi nel futuro spera -
Quando, finalmente, arriveremo
Faremo in modo di stare lontani.”
Istanti dopo ecco l’isoletta…
Era il timone in sicure mani,
Lontano da quel… “nido di civetta”,
Dove al sole, chiara diventava,
La visione d’un uomo gigantesco;
Solitario, seduto se ne stava
E nell’insieme tutto era grottesco:
Tra teschi, tìbie e fémori, sporgeva,
Tra i resti dei tanti marinai,
Sembrava triste: in verità piangeva
La morte delle figlie… oramai…
Stranamente non v’erano Sirene;
Solo l’uomo, dai verdi, grandi occhi,
Con sopra il volto tutte le sue pene.
“Non sembra un caso da nocivi sbocchi
- Pensò Odisseo, e al timoniere
Fece segno d’accostare la nave -
Non vedo né Sirene e né fiere,
E l’uomo ha segni d’una pena grave.”
Per primo, Ulisse, tolse dagli orecchi
La cera e sbarcò su grossi massi,
Su cui v’eran ossa e corpi secchi;
Quindi verso il gigante, mosse passi,
Sul cui volto gran pianto evidente;
Un bel viso, come quello d’un dio.
Il Laerziade, disse, repente:
“Non c’è ricordo nel cervello mio,
D’un dio piangente: ne sono sicuro,
E se sei il gigante, che io vedo,
Dovresti avere il cuore come un muro,
Invece, tu, piangi ed io credo
Che un male grave ti avrà colpito.
Quanto è grande il tuo dolore?
Ne puoi parlare o sei impedito?
Per te, noi, cosa possiamo fare?”
Niente potrete fare, o naviganti:
Io sono infelice perché assassino
Delle Sirene, mie figlie – amanti,
E pende su di me un grave destino…”
Quindi, tu sei di Zancle, il Colapesce,
Colui il quale ha fama ovunque,
Ed ogni marinaio più l’accresce?
Cosa ti ha costretto a ciò, dunque?
E qual destino temi a questo punto?”
“Sono dal sommo Giove condannato;
La sua sentenza mi ha già raggiunto:
Delle Sirene era innamorato
E non ha voluto sentir ragione.”
Ma cosa t’ha spinto all’insano gesto?
Non t’aspettavi la sua punizione?
In vero non mi spiego tutto questo.”
“La colpa è stata di un certo Ulisse,
Odiato da Nettuno, ma astuto
- L’uomo pesce, in un impeto, disse -
E contro di lui niente ho potuto.
Ascolta, amico, il perché mi dibatto:
Quando, col suo naviglio è transitato,
È successo davvero un grave fatto;
Da questa parte a spingerlo ho tentato,
Dato che il suo equipaggio, come sordo,
Remava senza udire le Sirene,
Come se il canto non giungesse a bordo.
Quelle, allora, affamate come iene,
Suscitando in me grande orrore,
Sconoscendo l’amante - genitore,
Senza badare alla conseguenza,
- Come in un sol cervello la demenza -
Mi hanno aggredito ferocemente,
Non potendo sbranare i viandanti;
Niente di meglio lor passava in mente
Che mangiar le mie carni, in quegli istanti.
Erano, ormai, un’orda feroce,
Veloci, tra le acque spumeggianti,
E mi ingiuriavano a grande voce.
Per giorni e giorni i loro inseguimenti…
Le loro unghie sembravano arpioni,
I loro denti parevano zanne;
Per le orrende loro intenzioni
Non potevo cedere alle tiranne:
Ciò, la mia difesa ha comportato;
Ho usato la spada che avevo in fronte
E così, per non essere mangiato,
Trafissi quelle ch’eran d’amor fonte,
Scilla, e anche Cariddi, inutilmente,
Quei corpi tentarono d’addentare
Perché il sommo Zeus, repente,
Esse, in scogli, volle tramutare.”
Quegli stessi notati da Ulisse
Delle Sirene erano i resti.
Quindi il gigante continuò a dire:
“I fatti, però, non son solo questi:
Poi, il dio, sfogando la sua ira,
Lesionò il pilastro sotto il Peloro,
Con strano dardo e perfetta mira.
Perciò, io, che la mia gente adoro,
Se non voglio vederla inabissare,
Dovrò restare per sempre immerso:
A funger da pilastro dovrò stare,
Non posso avere destino diverso.
Io son nato da un atto d’amore,
D’un dio di queste acque eterne,
Per una donna che aveva a cuore
Almeno un figlio, e non poteva averne.
Ero d’animo, più che altro, gentile,
Poi preda di una ninfa malvagia
Che mi costrinse ad essere vile,
Fin da quando dal mar venne in spiaggia.
Mi conquistò con la magica arte
Di far bollire il sangue nelle vene,
Giunsi al punto di sentirmi un Marte,
Tanto che generammo le sirene.
Quattro, in verità, meravigliose,
Maligne, anche loro, e convincenti;
Pur mi furono amanti vanitose,
E fui nemico di tutte le genti
Che han bisogno di solcare il mare.
Ho spinto navi presso questo scoglio:
Carne umana per farle cibare.
Adesso, io, so che cosa voglio:
Chiuder quel conto che Giove ha aperto.
Voglio in fondo fare il mio dovere:
Salvare la Sicilia; sono certo,
Mentre eseguirò il suo volere.
Adesso devi andare, marinaio,
Questo isolotto sta per sprofondare;
Porta la nave via da questo guaio,
Il vortice la potrebbe attirare.
Nel momento che il mare s’è arrossato
Del sangue di mia progenie malvagia,
Il grande dolore m’ha causato
L’ira furente e la più selvaggia.

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Seconda puntata

Sulle rocce mi sono avventato
A gran velocità mai pensata:
Di porre fine, io, ho tentato
Alla mia vita triste e sconsolata.
Proprio allora la spada s’è spezzata,
Ma nello stesso tempo ho frantumato
La base di quest’isola incantata,
La quale tante morti ha causato.”
“O buon gigante, io, ho sofferto tanto,
Ma il tuo racconto è veramente tale
Che anche in me suscita il pianto,
In me che ho provato ogni male.”
Così pensò di consolarlo, Ulisse,
Ma non vedeva l’ora di andare,
Però, a lui rivolto, l’altro disse:
“Prima che lungi ti possa avviare
vorrei sapere qual è il tuo nome.”
Ulisse trasalì per il timore:
Non sapeva che cosa dire e come,
Poi, rispose: ”Sono Meghenòre,
Vengo da Sparta e vorrei andare
Verso Occidente, per conoscer genti,
Onde poter con loro scambiare
Vasellame con stoffe e con sementi.”
Quando la nave imboccò lo stretto,
Fra Scilla e Cariddi, fisso guardò
Il mare calmo, con l’ansia nel petto
E fino a quando la nave non passò,
Ulisse, ben trattenne il respiro;
Pensò a quegli amici sventurati
E gli sembrò d’avere un capogiro:
Lì, il mostro, li aveva divorati.
A qualche alta volontà non spiaceva
Che i due voraci mostri dormissero.
A tanto Odisseo non sperava,
Ma ciò, a lui, gli dèi concessero.
Zefiro spinse la nave avanti,
Fino alla terra del capo Mylae
E osservò i dintorni varianti,
Intanto che toccava l’arenile.
Ulisse esplorava tutt’intorno,
Mentre d’Atena era ispirato
In quello che era un nuovo giorno.
Il suo percorso era mirato.
Ecco, all’improvviso, finalmente
Vide in alto la grande apertura
Nella roccia che guardava ponente
E lì s’arrampicò senza premura.
Era quasi arrivato, ormai,
Poi guardò quell’antro all’interno
E rivolgendosi ai suoi marinai
Disse: “Mi sembra parte dell’Averno.”
Dei pescatori, ch’ erano nei pressi,
S’avvicinarono agli itacesi
E Ulisse parlò a quegli stessi,
I quali ascoltarono cortesi:
“In quest’antro, che d’ora sarà detto
Di Polifemo, noi dovremo fare
Un sacrificio, per grande rispetto;
Dopo, riprenderemo il nostro andare.
A Nettuno voglio sacrificare
Per il male che ho fatto al figlio,
Ma anche perché ci guidi sul mare
Dov’è impossibile un appiglio.
Trovatemi qualunque animale
E meglio ancora se saranno due,
Perché il buon dio sia cordiale,
Ma fate che non si tratti di bue.”
Dopo ch’ebbe, Ulisse, innalzato,
A Poseidone, una preghiera,
Da quella gente prese commiato
Quando del sol era alta la sfera.
Con un andare non del tutto lento,
Insieme al gruppo, sul naviglio arrivò,
Innalzarono le vele al vento
E l’imbarcazione s’avviò,
Ad ovest, alla foce del Longano.
Poi ch’ebbe la nave ancorata,
Ulisse guardò lassù, l’altopiano,
Verso la verde macchia indicata
D’Atena che sempre lo guidava.
Ulisse con quattro uomini salì
E il corso dell’acqua costeggiava.
Come se fosse ispirato agì,
Lasciando il Longano sulla destra,
Proseguì, tra querce e uliveti,
Al profumo di fiori di ginestra
E fra corsi d’acqua e castagneti.
Vi era un villaggio di pastori,
Grandi produttori di latticini,
Ma erano anche agricoltori,
Trafficanti con villaggi vicini.
Ulisse aveva fatto portare
Delle stoffe e anche vasellame
Per poter con del cibo scambiare
Ed ebbero agnelli e pollame,
Ma anche frutta da portare via.
Mai aveva visto tanto latte,
Dire il contrario era bugia.
Gente rozza, ma non di malefatte,
L’accolsero come amici cari
E Ulisse capì che per cacciare
Erano provetti, a lui pari.
L’avevano voluto ospitare
E lui non poté fare a meno
Di rivelare la sua identità,
E poi decise in un baleno
Di rimanere diversi giorni là.
Era un villaggio d’umili capanne
E poche case costruite in pietra,
Con, all’interno, pareti di canne
E con in vista arco e faretra.
A tarda sera, dopo aver cenato,
Quello che sembrava l’autorità,
Da cui Ulisse era stato invitato,
Volle raccontare una verità:
“In questo villaggio che non ha nome
- Disse Sedario, con gli occhi lontani -
Non è saputo il perché ne come,
Successe un fatto tra quelli più strani:
Un uomo forzuto, alto di statura,
S’era distinto in lotta disperata
Per scacciare una somma iattura
Che aveva forma di orda pirata:
Mostruosa gente venuta dal mare,
Teste grosse, negri, denti da belve;
Carne d’uomo solevano mangiare
E la notte dormivano in selve.
Poi, intanto che il tempo passava,
Quell’uomo, Bosio, cambiava pian piano,
Sempre più prepotente diventava
Ed egoista, per un motivo arcano.
Il sommo Giove, come un mendicante,
Qui vi rimase per diversi giorni,
Ma tra i tanti solo il Bosio gigante,
Nulla facente, sempre nei dintorni,
Trattò male quel dio onnipotente,
Quando gli chiese d’esser dissetato
E glielo chiese molto gentilmente;
Ma quello, borioso e spietato,
Lo cacciò via come un appestato.
Il vecchio insistette speranzoso,
Ma l’uomo lo avrebbe bastonato,
Tanto era nell’animo scontroso.
Allora il vecchio divenne possente
Nel suo aspetto, tutto luminoso,
Mentre quell’uomo si sentì un niente
E lo seguì, in cuore pauroso.
E fu condotto su, per le alture,
Senza alcuna coscienza e volontà,
Come colpito da mille sventure,
Finalmente convinto alla bontà.
Un’anfora pesante gli gravava
Sulle spalle e ad ogni piè sospinto
Ancora più pesante gli sembrava.
Giunse, che era nella forza vinto,
In un luogo fresco e alberato,
Ai piedi d’una grande altura,
Dove Giove, nel vederlo spossato,
Gli segnalò una roccia sicura:
“Siedi là e versa acqua dal vaso,
Dico per sempre e sii generoso.”
L’uomo ubbidì, del tutto persuaso
E sorrise come fosse gioioso.
Giove, quindi, riprese a parlare:
“Isomekes Noos, sarai di nome
E per tutti acqua dovrai dare;
Sarai un fiume e vedrai come
Ben dirà l’uomo dal colle al mare,
Farai prolificare la pianura,
Tanta gente potrai dissetare
Ché mai dovrà soffrire l’arsura;
Fino a quel giorno in cui non sarà,
Al chiarore della luce divina
- Quando gli occhi del cuor malati avrà,
Intanto che sarà all’ultima china –
La più drammatica delle verità:
Quando le onde dell’acqua marina
- Manifesto d’immane autorità -
Sembreran come nera gelatina;
Quando la luce e il chiaror del cielo
Non saranno che desiderio vano
- Sarà come guardar un nero velo -
E appariranno un ricordo lontano.
Le bocche saran tutte spalancate
E l’aria, ormai fuligginosa,
Per le pupille serrate per sempre.
La morte sarà densa e vischiosa
E gli uomini strisceranno pentiti
- Un rimasuglio di vita randagia -
Nel cuore dolori avranno scolpiti
E saran giunti all’ultima spiaggia.
Sarà inutile rendersi conto
Che non avranno più nessun coraggio,
Che han pagato senza alcuno sconto,
A caro prezzo l’ultimo viaggio.
Fino ad allora, tu, sempre sarai,
Riempirai le falde sottostanti
E simbolo di vita resterai
In territorio d’acque zampillanti.”
E, Isomekes Noos, lì rimase
Quando il dio sparve d’improvviso.
Di questa verità si persuase
Tutta la gente, in modo preciso.
Passò del tempo, tanto di quel tempo
E poi quel nome che Giove gl’impose
Fu mutato, storpiato nel frattempo
E un corrispettivo vi ripose:
Isomekes Noos: Lungo (grande) cuore,
Fu chiamato col nome di Longano,
Comunque, “Generoso Genitore”
Della prosperità di colle e piano.”

.............................................

Terza puntata

Rimase, Ulisse, attonito, un istante,
Quindi, pensò il racconto di Sedario
E il destino di un arrogante
Che Giove volle come suo gregario.
Nella parte più alta del villaggio
Ulisse fece eriger un colosso
E, prima di mettersi in viaggio,
Pensò di fare anche un discorso:
“Qui, nei pressi di questa fontana,
Dove assieme abbiamo cacciato,
Lascio queste sembianze di Diana,
Per tramandare un fatto passato.
Voi, che gente pacifica siete
E questa ch’è la contrada del latte,
Ecco, così conosciuti sarete;
Queste sono le parole esatte:
Gala, si chiamerà questa contrada,
Anche in onor di ninfa Galatea,
Sono sicuro che ciò vi aggrada,
Perché da Atena viene l’idea.
Gala, che in greco, latte vuol dire
E voi, gente dell’alto Longano,
Potrete sicuramente predire
Che questo nome viene da lontano.”
Ulisse, ed i suoi marinai,
Giunto che fu il tempo del commiato,
Quando nulla li tratteneva ormai,
Avendo tutto in spalle caricato,
Lasciarono quel borgo del Longano.
Contenti, tutti, della missione,
Proseguirono lesti verso il piano
Per ritornare all’imbarcazione.
Da quel momento e in avvenire,
Fin all’evento della cristianità,
Ognuno, in vero, lo sente dire,
Fu venerata quella divinità
Di marmo bianco, con effigie Diana.
Quindi, il colosso, venne distrutto
Per una costruzione basiliana
Che veramente diede il suo frutto.
Ripresa, dunque, la prefissa rotta
Verso l’eoliano regno mitico,
Mangiarono del pane con ricotta,
E fecero un sonno magnifico.
Ulisse guardò prima di dormire
Sotto un cielo del tutto limpido
Ed ebbe la grande voglia di dire:
“Questo non è un reame infido.”
Un abile nocchiero manovrava
La veloce nave com’era spinta
Da un nobile vento che soffiava,
Per volontà degli dei, con grinta,
Quando tutte le isole eoliane,
Come la volessero incontrare,
Oramai non erano lontane,
Perché il benvenuto poter dare.
Giunsero in porto prima di sera,
Per primo, Ulisse, la terra toccò
Ed era inoltrata primavera
Quando, costui, di gioia traboccò.

Ma vi era un’insidia nascosta:
Ambizioso popolo di guerrieri
Le cui navi facevano sosta,
Con l'avanguardia di pionieri.
Erano arrivati nella notte
Tante navi, tutte quante armate,
Quando il buio le cose inghiotte
Ed erano per bene imboscate.
Dietro i faraglioni e gli anfratti,
Intanto che i capi, con l’inganno
- Che seguivano dei piani esatti -
Stavano creando il peggior danno.
Due di questi, con dieci armati,
Presentandosi al re come amici,
Desiderosi d’essere ospitati,
Si dimostraron poi fieri nemici.
Stava sul trono, Eolo, tranquillo,
Davanti aveva gli ospitati
I quali, come fossero un sol grillo,
Tutti addosso gli erano saltati.
l re dei venti non poté fiatare,
Perché si trovò con la bocca tappata,
Quindi via lo vollero portare
E la sua persona minacciata.
Con armi al ventre e alla gola,
Non poteva affatto reagire.
Voleva dire una cosa sola
Alle guardie: di non intervenire.
Mentre tutta la corte si scostava,
Con quegli sguardi fissi, atterriti
La drammatica scena osservava.
Il re dei venti, con gli occhi smarriti,
Veniva portato verso il porto
E i rapitori erano stati
Molto chiari e ciascuno accorto,
da provetti criminali armati.
"Nessuno tenti di avvicinarsi,
Se tiene alla vita del suo re,
O troverà i suoi intestini sparsi
E nessuno può dar la colpa a me.”
Così disse quello che più contava,
Lanciando sguardi intorno, sulla gente,
Mentre il re verso il porto tirava
E davvero non poteva far niente.
In quel mentre, attratto dalla scena,
Ulisse, rivolto ai marinai,
Dalla nave sua scesi appena,
Disse: “Amici, ecco nuovi guai…
Voi dieci andate sulla nave
Mentre gli altri tre rimanete con me,
La situazione, qui, mi sembra grave,
Prendete l’armi, poi vi spiego perché.”
Ulisse e i suoi, pronti ed attenti,
Si mantenevano un po’ distanti
Con spade archi e frecce, fino ai denti,
E pian piano si facevano avanti.
“Quello – disse Ulisse ai suoi -
Eolo, lo dobbiamo liberare.
Cercate di disporvi bene voi,
Una sorpresa, noi, dobbiamo fare
A quelli che lo vogliono rapire.
Appena io avrò l’occasione
Cercherò con la freccia di colpire,
Quindi poi, nella confusione,
Libereremo il dio dei venti.
Cerchiamo di fare dei prigionieri:
Voglio conoscer questi violenti
E quali sono i loro pensieri.”
Odisseo, e tutti i suoi compagni,
Si facevano sempre più vicini,
Strisciando alle pareti come ragni.
In un tragitto fatto di gradini,
Con freccia in arco, Ulisse mirò
E aspettò il momento fatale;
Non lo poteva mancare e tirò,
Colpendolo al collo laterale
Quel guerriero che Eolo spingeva.
Di toccare terra non ebbe tempo
che una pioggia di frecce giungeva.
Repentino, Ulisse, nel frattempo,
Eolo proteggeva con la spada.
Togliendogli dal viso il bavaglio,
Mentre un nemico teneva a bada,
Chiese sugli aggressori un ragguaglio.
Eolo tacque e guardò Ulisse,
Già che la battaglia era conclusa,
Quindi lo chiamò amico e disse,
Intanto che la gioia era diffusa:
“Sei Ulisse d’Itaca… Ricordo:
Per timore d’un dio a te avverso
Alle tue richieste fui sordo
Ed un’occasione io ho perso
D’aiutarti una seconda volta
Dopo averti donato gli ostili
Venti perché la positiva svolta
Avesse il tuo viaggio, ma i vili
Marinai sconvolsero il piano.
Adesso sei qui per liberarmi,
Chissà per quale volere arcano,
Sorprendendo gli aggressori in armi.
Di questi, che hanno avuto il colpo inferto,
Non capisco chi siano i mandanti;
Ma io, ovviamente, sono certo ,
C’è da guardarsi d’ora in avanti.”
“Adesso - disse Ulisse – portiamo
I prigionieri, su, alla fortezza,
Così interrogarli noi possiamo
Ed avere subito la chiarezza
Sulle loro ostili intenzioni.”
I superstiti furono solo tre,
Tra gli altri supini e bocconi,
Abbattuti senza sapere da che.
Interrogati in modo severo,
Dissero ogni cosa i prigionieri,
Convincendo che tutto era vero,
Persino i più intimi pensieri.
Erano Morgeti, gli aggressori,
Venuti da quel centro meridione
- In cerca d’avventure e tesori -
Di ciò che sarebbe stata nazione.
A Eolo dovevano far dire
Dove teneva i suoi tesori,
Poi se ne dovevano servire
Per disarmare i suoi difensori
E conquistare tutta la fortezza.
Quindi via libera alle navi
Ed avere la massima certezza
Di un invasione senza aggravi.
Al corrente del macchinoso piano,
Eolo con l’aiuto di Ulisse,
Considerò quel colpo molto strano,
Quindi, radunati gli armati, disse:
“Noi non siamo un regno bellicoso,
Anzi, chi cerca pace è benvenuto,
Ma quando il pericolo è gravoso
Che bisogna agire è risaputo.
Quindi colpite con frecce infuocate
Le navi nemiche negli anfratti.
Dall’alto delle rupi, incendiate
Finché non saranno tutti disfatti.”
Visto fallire il piano, i Morgeti
E vistisi attaccati dalle alture,
Fuggirono con gli animi irrequieti,
Ma pensando ad azioni future.
Le navi, che al fuoco scamparono,
Presero il largo in tutta fretta
E a distanza si radunarono,
Mentre stava qualcuno di vedetta.
Organizzati con gran furberia,
Scomparvero, così, dietro Salina,
A far credere d’esser andati via,
Mentre di notte una cinquantina,
Con vele e remi a grand’andatura,
Sbarcarono in costa fuori mano
Ed arrivarono fin sotto le mura,
Lentamente, senza fare baccano.
Tutto sembrava tranquillo dall’alto;
Nella fortezza si faceva festa,
Eppure era imminente un assalto,
Ma Eolo festeggiava le gesta
Di Ulisse che l’aveva salvato.
Tutti quanti avevano creduto
Che il nemico fosse via andato.
Solo Ulisse non era caduto
In quella trappola, ch’era la stessa
Che i greci fecero ai troiani,
Creando a tal punto la premessa
Di trovarsi invasori l’indomani.
E fu il fuoco, il sangue e la morte,
E fu il massacro di tanta gente,
A trattenerli non ci furon porte.
Questo il tarlo d’Ulisse nella mente,
Ma lì, in quel momento c’era festa,
Ulisse i doni aveva portato,
Però fuori era pronta la tempesta
Che la gioia avrebbe rivoltato.
Ulisse si avvicinò al trono
E ad Eolo disse allarmato:
“Amico mio, ti chiedo perdono,
Ma io mi sento in uno stato
Di grave tensione che non mi dà,
In quest’istanti di festeggiamenti,
Nemmeno un attimo di tranquillità,
Perché mi aspetto gravi momenti.
Se mi permetti, signore del vento,
Coi miei uomini vado all’esterno,
E controllo i dintorni in un momento,
Prima che il nemico venga all’interno.”
Eolo, con l’accenno d’un sorriso,
Fece un segno ai suoi soldati,
Dando loro il comando preciso
Di unirsi ai greci armati.
Pochissimo tempo era passato,
Da quando Ulisse era uscito
Che un soldato rientrò allarmato
Perché un attacco era ordito
Dai Morgeti ch’erano tornati.
Fuori il frastuono era tremendo;
Al chiaror lunare scontri d’armati:
Quelli, un varco stavano aprendo.
Ulisse indietreggiava, impegnato,
Contro quattro nemici prepotenti.
All’improvviso era scivolato
Mentre parava gravosi fendenti.
Le spade scintillavano al chiarore,
Mandavano un suono di metallo
E Ulisse, con tutto il suo furore,
Si sentì una vela senza strallo.
Finì lungo il costone ruzzolando,
Picchiò la testa contro tronchi e massi
E non poté fermarsi fino a quando
Contuso arrivò giù tra i sassi.
Gli altri greci s’erano salvati,
Nell’ombra della notte, dileguati,
Ma erano parecchio preoccupati
Non vedendo Ulisse e, allarmati,
A sole alto, come dei cenciosi,
Tornarono sul luogo della lotta,
Ma sempre più nel cuore rabbiosi
Per aver preso quella brutta botta.
Furono con crudeli modi spinti
Dai Morgeti, in maniera sospettosa,
Però, più tardi, furono convinti
A liberare l’area spaziosa
Dai corpi morti nella battaglia.
Approfittando del compito avuto,
Nel trasportarli oltre la boscaglia,
Il gruppo greco si è riavuto:
Erano solo tre i greci morti
E fra questi Ulisse era assente.
Guardarono intorno, stando accorti,
Fu cercato e chiesto alla gente,
Ma di Ulisse non videro l’ombra.
Andarono persino sulla nave,
Ma questa risultava esser sgombra,
Allora la cosa sembrò lor grave.
Per sette volte fu il nuovo giorno,
I greci, come orfani di padre
Rifecero ricerche tutt’intorno,
E divisero il gruppo in due squadre.
Passarono i giorni lentamente
E in settimane di vane ricerche
Ulisse risultava sempre assente:
Forse, opra delle parche noverche.
Restava loro solo d’esser lieti
Dal momento che avevano scoperto
La notizia che i soldati Morgeti,
Ad Eolo, non avevano inferto,
Come certo si poteva pensare,
L’offesa della pena capitale:
L’avevano voluto trasportare,
Con un gesto davvero plateale,
Sotto il trono, nell’antro dei venti
E lì rinchiuso con un masso enorme.
Dedicatisi, da veri pazienti,
Alle ricerche, con tutte le norme
E non trovando traccia di Ulisse,
Si riunirono sopra la nave
E il più autorevole disse:
“Mi pare che quel che dirò è grave,
Ma dato che Ulisse non si trova
E qui rischiamo d’essere scoperti,
Non avendo di lui alcuna nuova,
Propongo di ritornare solerti
Verso la nostra Itaca ridente,
Dove ognuno ha i suoi interessi,
Dove il calore familiar si sente,
Anche se i giorni son sempre gli stessi.”
Tutti approvarono, però scontenti,
Certi di tornare alle loro case,
Ma avevano pur dei sentimenti.
Uno di loro disse una frase
Che servì a farli incoraggiare:
"Amici, credo che possiamo andare,
Per niente ci dobbiamo scoraggiare:
Ulisse qui voleva pur restare.”
“Ma certo – disse un altro contento –
Sicuramente, Ulisse, è andato,
Questo dentro il cuore me lo sento,
Per evitare il triste commiato.”
Mentre Ulisse vagava smemorato,
Salpavano i marinai greci,
Ciascuno con il suo proprio fato.
Parlavano di lui quei dieci;
Il naviglio su Itaca puntato,
In cuore speranzosi d’arrivare.
Nessuno avrebbe loro raccontato
Cosa al re stesse per capitare.

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QUARTA PARTE

(Prima puntata)

Ascolta, figlio, il racconto è lungo;
Mi ascolti chi ha ancor pazienza,
Fino a quando alla fine giungo,
Dopo che Ulisse prenderà coscienza:
In questo sogno Omero è vicino,
Mi sembra ch’io lo tocchi con mano,
Appare possente, come il destino,
E con quella voce mi parla piano.
È convincente e gli dò ragione
E mi trasporta lungo avventure
Dov’ è più forte la suggestione
E dell’incanto perdo le misure
Di questo centro del grand’universo.
Qui son nate storia e leggenda,
Ma in realtà molto si è perso:
Non interessa più questa faccenda
A tanta gente che vuole ignorare
Che in questo centro nacquero gli dei
E or si voglia anche ben sperare
Che si avveri quel che io vorrei:
Non più mostri nati dall’egoismo.
Qui nacquero la guerra e la morte
- Ma pure l’amore e l’eroismo -
L’uomo creò la sua malasorte
E per volere di sua natura
Pur modesto si crede semidio,
Specialmente se manca di cultura
E del denaro sente tintinnio.
Vagò, Ulisse, fra boschi e campi,
Vagò d’estate e vagò d’inverno,
Sotto il sole e sotto tuoni e lampi,
Vagò come per un volere eterno.
Quella notte della grave tenzone,
In cui batté la testa fortemente,
Per colpa dell’enorme ruzzolone,
Ad Ulisse non resse più la mente;
Gli rimase solamente l’istinto
Contro gli imprevisti e il destino
E di non cadere del tutto vinto
Dal momento che si trovò supino.
Quel giorno, ripresosi dalla botta,
Sotto il sole del primo mattino,
Trovò rifugio dentro una grotta,
Assieme al suo nuovo destino.
La testa si sentiva roteare
E lì aveva profonda ferita
Che lui deterse con acqua di mare,
Notando la gravità con le dita.
Il giorno dopo pensò di uscire
E camminò lungo il litorale.
Del cibo , lui, voleva reperire,
Ma c’era soltanto acqua di sale.
A lungo, fino a sera gironzolò
E della fame sentiva i morsi,
Finché presso una fonte si trovò
E avido ne bevve lunghi sorsi.
Arrivato dalla parte opposta,
Incontrato un essere umano,
Chiese chi era per aver risposta,
E dimostrò di non essere sano.
Finalmente un vecchio marinaio,
Il quale aveva tanto viaggiato,
Mentre col legno faceva un cucchiaio,
Disse: “Dir ch’e greco non è sbagliato.”
E quindi a Ulisse si rivolse:
“Secondo me tu sei navigatore
- E intanto l’ansia del cuor gli colse –
E in barca sai farti onore.”
Ulisse lì rimase e navigò;
Si unì alla gente operosa
E fu in quel modo che la ripagò
D’esser stata con lui generosa.
La nave dei dieci Itacesi
Era da giorni arrivata in porto,
Contenti tutti di vederli illesi,
A Calèmaco fecero rapporto,
Proprio con tutti i particolari,
Compresi, e soprattutto i guai;
Lo scontro coi Morgeti, casi vari
E la perdita dei tre marinai.
Penelope, con la sua pazzia,
Nei dintorni sola s’aggirava,
Sembrava sospettosa come spia
E tutti quanti muta ascoltava.
Quando sentì la parola Ulisse
Ebbe uno scatto quasi da felina
E agitandosi gridò e disse:
“Ascoltatemi: sono la regina…
Dov’è Ulisse? Portatemi da lui…
Dov’è Ulisse? Portatemelo qui…”
Ma c’era il vuoto in quegli occhi bui.
Poi s’accovacciò per terra e s’assopì.
Ma quella notte, le complicazioni:
Parlava con sè stessa ad alta voce,
Girava lanciando maledizioni
E a sentirla diventava atroce.
Diceva: “Io non sono traditrice,
Ma se ho fatto quello che ho fatto,
Di Era è colpa, la gran Genitrice,
Che mi servì pietanza nel piatto.
Mi disse ch’era tradita da Giove;
Mi disse che aveva tanto sofferto
E che di tutto aveva le prove.
Lei ha preso il mio aspetto
E come donna ha tradito lo sposo,
Mentre tradivo Ulisse lontano.
Ora nel cuore non provo riposo
Perché il cervello non è più sano.
Chiamate mio figlio, portatelo qui…
Voglio Ulisse… Andare da lui…
Sono la regina e voglio così.
Chi è Laedo? Chi sarà costui?
Io sono lei, la dea Giunone…
Giove ha pagato e pagherà ancora;
Non si chiuderà così la questione;
Lui lo vedrà nella prima aurora.”
Col passare del tempo peggiorava;
Il male ch’era in lei s’accresceva,
E la situazione più s’aggravava.
Tutto da Calèmaco dipendeva:
E lui prese la decisione.
“Forse – Pensò – facendola partire,
Le farà bene la distrazione
E quel suo male potrebbe lenire.”
Lei era pur sempre la regina
E sopra una nave, di repente,
La mise in viaggio una mattina,
Ma lei sapeva d’esser demente.
Partirono con lei tre ancelle,
Diciotto marinai e inservienti;
Lei felice non stava nella pelle,
Sembrava tra le donne più potenti.
Le fecero toccare tanti porti
E lei con altri occhi vedeva,
Non l’erano più insonni le notti
E il più delle volte connetteva.
Di tutto Giunone era la chiave;
Penelope le era come figlia,
Per cui proteggeva quella nave
Che scorreva sull’onda con la chiglia.
Eolo, intanto, in quella grotta,
Sotto il suo trono e tra i venti,
Aveva assunto una fiera condotta,
Per cui ne riunì i più potenti
E un vortice tremendo scatenò,
Con un boato che fece paura,
Perché la terra attorno tutta tremò
E provocò un’onda a dismisura.
L’enorme pietra che l’antro ostruiva
Com’un fuscello, dunque, volò via,
Tutta la guarnigione s’atterriva,
Così finiva la gran supremazia
Dei Morgeti, stranieri invasori,
Abili naviganti e guerrieri,
Venuti a caccia di terre e tesori,
Però trovarono nemici fieri.
Eolo disse ai capi Morgeti:
“Questa è terra civile di pace;
Io sono il re e amo i poeti.
Potete restare, se ciò vi piace.”
“Certo, accettiamo – dissero quelli –
Viva la pace, e niente più guerra.”
E tutti diventarono fratelli,
Vivendo assieme su quella terra.
E fu grande la festa in fronte al mare.
La nave di Penelope giungeva.
Qualcuno il flauto volle suonare
E d’ogni parte la gente accorreva.
La gente era felice abbastanza;
Là, in mezzo, stava il dio dei venti
E c’era Ulisse a poca distanza.
Tutti assieme erano contenti,
Ma Ulisse, ancor, non ricordava;
Certo, però, che sembrava attento.
Proprio allora Penelope sbarcava,
Ma lui se ne andava in quel momento.
Limpido mare, splendida natura
Ove le ninfe di bellezza eterna
Sembravan tratte da una pittura
Ed ogni occhio le era lucerna.
Cantato da Omero, quest’incanto
Dell’eoliano mitico reame,
- Dal re Ulisse sospirato tanto,
Nelle sue vive e cocenti brame -
Appariva un insieme da sognare,
Con le isole tutte quante belle
E ci si può fermare a pensare
Al caldo sole o alle lucenti le stelle.
Baciate, come sono, dalle onde
Hanno convinto molti a tornare,
Le pittoresche, frastagliate sponde
Che non si fanno solo immaginare.
Omero volle tanto dedicare
Con tutto il cuore la sua poesia,
Che val la pena certo declamare,
Facendo anche dell’apologia.
Tutt’era calmo, nel cielo la luna,
Circondata di stelle, assisteva
E chi cercasse ventura e fortuna,
E fosse triste, allegro rendeva.
L’eterno Tempo, qui, fu partorito
Dal sogno di un vecchio pescatore,
Egli, che era parte di un mito,
Divenne il tradito traditore:
Ulisse, ch’era d’Itaca partito
Per diventare uno smemorato,
Sognava divenir rinvigorito;
Così Penelope l’ha ritrovato.

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Seconda puntata

Ma poi, sarà Penelope? o Giunone?
Comunque sia, questo lo si vedrà;
L’una o l’altra, in conclusione,
Di certo Ulisse la perdonerà.
Poi, Ulisse, dal sonno, fu svegliato
Dal dolce flauto misterioso,
Che non si sa da chi fosse suonato,
Ma fino a lui arrivò melodioso.
Ridestato lo straniero monarca,
Davanti un fanciullo gli apparve
- Egli era accanto ad una barca -
E che gli parlasse a lui parve:
“Stanotte: stesso sonoro commento
- Diceva la sua voce, infine -
Portato da un alito di vento,
Realizzato dall’onde marine.
Qui ho visto l’alba, i primi tramonti,
Ho assistito a tutti gli eventi,
Alla nascita del mare e dei monti,
Ma ho pur visto gli immani tormenti.
Ho visto tanti atti disumani
- Durante il mio eterno passaggio -
Commessi da strani esseri umani
Portatori dello stesso messaggio.
Io ho potuto sentir ridere,
Ma ho visto bellezze sfiorire;
Ho visto, tante volte, sorridere,
Nascere invecchiare e morire,
Ho visto poche volte concedere,
Ma ho visto, molte volte, negare.
Ho visto singhiozzare e piangere,
Disperare, credere e pregare,
Tutte quelle volte che la natura
Si è prepotentemente svegliata
Senza alcun rimedio nè cura
E si è con violenza ribellata;
Quando per i rei chiara clemenza,
Quando il giusto privo di coscienza
Ha emesso vergognosa sentenza
Senza la benché minima prudenza.
Qui, adesso, voglio testimoniare,
Al cospetto della splendente luna
E dei suoi bagliori sul mare,
Come viene raccontata ciascuna
Storia o leggenda, mai sbiadita
E mai prima di adesso svelata,
Che ancora continua a dare vita
Da quando essa è stata inventata.”
E Ulisse allora intervenne,
Come se ad un dio stesse parlando,
Del quale aveva memoria perenne
E chissà ancora, fino a quando:
"Posso dire d’averti ascoltato
Veramente molto interessato,
Mentre un lampo t’ha illuminato:
Devo dire che ti ho osservato
Perché attratto dal tuo parlare;
Tu ragioni come fossi attempato
E mi hai fatto meravigliare.
Ripeto: io ti ho ben scrutato:
Tu, però, non sei che un ragazzino…
Ciononostante mi hai sbalordito…
Si… sei poco più di un bambino,
Eppur mi hai del tutto intontito.
Dimmi, chi sei? Da dove provieni?
Come fai a sapere tante cose?
Che età hai? Quanti anni tieni?”
Allora il fanciullo gli rispose:
"Io sono come un campo arato
Sono tutto quello in cui tu credi;
Sono pronto ad esser seminato,
Son tutto quello che con gli occhi vedi,
Ma anche quello che, non puoi sentire,
Che non si tiene in un pugno serrato;
Son quello che senza colpo ferire,
In silenzio, ti ha trasformato.
Io non sono mai stato assente,
Sono quello che ti ha regalato
- Essendo stato qui sempre presente -
Tutti gli anni che hai maturato.
Ricordati che sono il passato,
Ma sono anche quel che tu sarai;
Sono stato ovunque tu sei stato,
Ma son colui che non invecchia mai.”
“Sicuramente stento a capire.
Tu mi convinci d’esser la sapienza
E riesci a farmi sbalordire,
Tu mi scuoti del tutto la coscienza
- Riprese a rispondere Ulisse,
Che la sapienza ardeva d’avere,
Quindi, amareggiato, al tempo, disse -
Non c’è dono più grande del sapere!
Ma guarda: sono soltanto un vecchio;
Dicono ch’ero gran navigatore;
Avrò in vita navigato tanto,
Ma non ho memoria di quest’onore.
Ora solco mari di fantasia,
Ma il mio tempo è già trascorso.
Quando la morte mi porterà via
Me ne andrò senza alcun rimorso.”
E il fanciullo riprese parola:
“È ricca d’avventura la tua storia
E voglio dirti una cosa sola:
Presto ritornerà la tua memoria.”
Rispose Ulisse: “Stai profetizzando,
Adesso mi confondi ancor di più;
Vorrei sapere se io stia sognando,
Vorrei esser sicuro chi sia tu.
Dalle parole mi sembri antico,
Ma appari tenero, infantile,
Se ti guardo – permetti, io qui lo dico -
Accovacciato sopra quel sedile,
Ma se dò spazio alla fantasia
Potrei arrivare anche a concepire,
Per soddisfare pur l’anima mia,
Che tu sia il Tempo. Altro non so dire.”
“Ed io lo sono: il Tempo sono!
E sarò, sempre, senza alcuna età;
Non lancio lampi, e neppure tuono:
Passo in silenzio, questa è verità.
Ma io esisto, e tutto accompagno,
E accompagno qui il vecchio Omero
- Senza nessuna perdita o guadagno -
Con la sua poesia nel pensiero.”
Così rispose il Tempo ad Ulisse:
“No, generoso Tempo, non è mia
- Allor Omero intervenne e disse -
Sarà sempre divina la poesia:
Io della musa sono strumento,
Calliope da sempre mi onora
Ed io, proprio in questo momento,
Voglio ossequiar la mia signora.”
Apparve Omero, all’improvviso
E Ulisse, che non lo conosceva,
Osservò quel suo triste sorriso,
Mentre il cieco poeta diceva:
"L’acqua della fonte mi ha dissetato,
Quella scavata dal Pègaso alato,
Da quella fonte ho assimilato
L’arte poetica che m’ha saziato.
Di ciò Apollo devo ringraziare,
Ma permettimi, Tempo, di pregare
La musa che mi torni a ispirare
Poiché solo poesia so fare.
Calliope, divina, ovunque sei
Da questo cieco, tu, fatti sentire,
Certo sono insicuri i passi miei,
Ma gli occhi del cuor ti sanno seguire.
Se tu mi guidi, io, posso entrare
In anfratti, della storia, oscuri;
O divina, ispirami a cantare
Di questi luoghi, quanto mai puri,
Che mai furon sette le sorelle:
Due erano maschi prodigiosi,
Quelle eran cinque, maestose e belle,
Ma i maschi eran possenti e focosi.”
“Son qui, Omero a me tanto caro,
Io mi paleso su questa scena
- Disse quella che per lui era faro,
Manifestandosi tanto serena-
Racconta di queste terre, Omero
E rendi il cuore un po’ più felice
Con la tua voce che racconta il vero;
Divulga, tu, quel che altri non dice:
Che qui non è il sud e neanche l’est,
Dichiara qual è l’unica realtà,
Che non è il nord e neppure l’ovest;
Questo, in verità, nessuno sa:
Dillo che questo è il punto preciso;
Afferma qual è l’unica verità,
Fin da quando un dio l’ha deciso,
Che questo è il centro d’ogni civiltà.
Su questa scena, al bagliore lunare,
Il grande, geniale, vecchio Omero
Può liberamente continuare
A cantare con animo sincero.”
Così, l’ispiratrice, concludeva,
Mentre Ulisse, come intontito,
Di quella surreale scena godeva
E d’esser vivo non era pentito.
E fu Omero che così riprese,
Rivolto al tempo e alla musa,
Con un tono limpido e cortese,
In quello spazio con luce soffusa:
“Grazie a te, mia divina Musa,
Sebbene vecchio, ormai consunto,
Farò sì che tu non sia delusa,
Da quest’animo ancor non tutto munto.
Ho della linfa ancora da donare
E narrando di Nebulo da Myle
È il momento per poterlo fare:
Era navigatore, mai ostile.
Presa in sposa la leggiadra Cliòle,
Questa ne partorì sette di figli,
E fu madre devota della prole
Che allevò con amore e consigli.
Arrivò poi degli dèi il verdetto:
In isole li vollero mutati
Giove e Giunone per farsi dispetto.
I fatti così furono annotati.
Nessuno mai, qui, ne ha parlato,
Neppure Mercurio, piede alato,
Forse per quel dolore sopportato
Che fu dagli dei sommi causato.

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Terza puntata

Qui cinque fanciulle meravigliose,
Come sirene dai sogni belli,
Nuotavano libere e gioiose,
Guardate a vista dai loro fratelli,
Vulcano e Stromboli, forze prodigiose,
Che avevan fama d’essere focosi
E capaci d’imprese favolose.
Valicando i limiti noiosi,
Giove si invaghì delle sorelle,
E come un uomo scese tra le onde
Per sedurre con l’inganno le belle
Che se ne stavan a cantar gioconde.
Ma ostacolato da grande irruenza,
Li tramutò in isole di fuoco,
Giove, manifestando la potenza,
Come se fosse un semplice gioco.
Cocciutamente e con istinto strano,
Pieni di lava e rabbia rovente,
Vulcano e Stromboli poco lontano,
Capaci di un potere dirompente.
Quindi, delle scorate giovinette,
Cadde ogni ostentata resistenza
- Rimaste sole e ormai costrette -
Di fronte a Giove e la sua potenza.
Lussureggianti, belle, profumate
E presentando ogni gentilezza,
Come sempre tutte desiderate,
Vinsero qualsiasi timidezza.
Ma Giunone, sposa sempre tradita,
Scrutava dall’Olimpo le avventure
- Rosicchiandosi l’unghie e le dita -
Mentre Giove amava le creature.
Giunone la divina grande madre,
Per l’impotenza della sua natura
Di non poter punire Giove padre,
Delle sorelle fu somma iattura.
Guardò quelli ch’erano i fratelli,
Quindi precisa , con solenne gesto,
Mentre quelle giocavano a saltelli,
Le mutò in isole del contesto.
“Nessuno – disse – di fermarmi tenti.”
Lipari, Salina e Filicudi,
Baciate dalle onde e dai venti,
Con Panarea e con Alicudi.
Sconfitto Giove, triste e sconsolato,
Lui – padre dio degli elementi –
Pensò che se lo fosse meritato
Esser battuto da stessi strumenti.
Superbe, linde e lussureggianti,
Isole che fanno innamorare,
Luminose e di fiori fragranti;
Chi v’è capitato ci vuol tornare.
Liparo stesso, figlio d’Ausone,
Re d’Italia, qui venne in missione,
Ma giunto che fu a destinazione,
Incantato nella bella stagione,
S’impossessò dell’isola più grande,
Convinto che portasse il suo nome.
Così ora il racconto s’espande
Ad Eolo e ci si spiega come:
Incarnazione di Giove immane,
Che desta una strana meraviglia,
Egli, figlio d’Ippòta e di Ciane,
Quest’ultima di Lìparo la figlia.
Allora, Zeus, come dio dei venti,
Per far dispetto alla moglie Giunone,
Vagò tra l’isole dopo gli eventi,
Ma lei non chiuse mai la questione.”
Penelope arrivò in compagnia,
In tempo perché potesse ascoltare
Ciò che fece affiorar la sua follia
E la costrinse a sovrabbondare:
“No, non è chiusa ancora la questione
E non lo potrà essere giammai,
Omero mio, io ho ragione
E certamente questo tu lo sai.
L’ingiuria subita, fa sprigionare
Sempre di più la mia gelosia,
Quella offesa mi fa disperare,
Per colpa della loro leggiadria.
Non è invidia quel che mi rimane;
Non invidio la bellezza innata
Di queste isole dette “eoliane”,
Ma io sono stata umiliata.
Le vola intorno in forma di vento,
Le vola intorno e sempre l’accarezza,
È sempre tra di loro, ogni momento
E a me, sposa, neppure una brezza.
Giove immondo, marito infedele,
Il mio orgoglio è stato vendicato
Dato che lui, con me, è crudele:
Quei due vulcani, io, ho aizzato.
Contro di lui ho creato eclissi,
Ho causato anche sconvolgimenti,
Complice Nettuno re degli abissi,
Considerato tra gli dei potenti.
Eppur mi sembra d’esser ignorata,
Così mi sono sbiadita alquanto:
Sono stata quasi dimenticata,
Per cui di me non si parla più tanto.
Ho perso l’identità… non discerno…
A volte credo di aver sbagliato
E forse ho perso il potere eterno.
Mi pare che un tempo ho deviato,
Ma è successo non per colpa mia;
Giove mutò la mia identità,
Ecco perché ho preso quella via:
Mi fece donna di triste vanità.
Donna mi fece, anche con le voglie;
Ad esser Penelope fui costretta
E fui costretta a provar le doglie,
Ad interpretar la moglie perfetta.
Se come dea fui sempre tradita,
Come moglie fui abbandonata.
Ora è tutta sconvolta la mia vita:
Non sono dea né donna assennata,
Ma quello che fu lo scaltro Ulisse
- Che in realtà, io,avevo ripagato -
Lo sospettò, ma mai a nessuno disse
D’avermi così tanto abbandonato.”
Ulisse, come un vecchio addormentato,
Ascoltava e, nel mentre, pensava;
E, dopo aver ben analizzato,
A Penelope si avvicinava,
Sorpreso, poiché in quell’istante
Riprendeva coscienza di se stesso,
Ritrovandosi guerriero errante
E quindi parlò come per riflesso:
“Penelope… Ulisse… ma chi sono?
Ecco! Ulisse, d’Itaca venuto…
Sono un re senza più il suo trono,
Però ricordato come astuto…
Meglio fossi rimasto smemorato
E ignorando, del passato, il tutto,
Senza rimorsi, non più tormentato,
Mentre mi trovo col cuore distrutto.
Ne ho attraversato lidi e strade,
Però poi sono qui ritornato,
Attratto da queste belle contrade.
Il profumo m’aveva conquistato;
Qui i colori e la spuma del mare
Itaca mia fanno ricordare.
Qui sono approdato per scordare
Tradimenti subìti e da scontare
E scopro adesso la dea Giunone,
Che in Penelope s’è incarnata,
Spudoratamente far confessione
E per farmi male qui s’è recata.
Qual risveglio più triste può avere,
In quest’istante fuori d’ogni sogno,
Uno che non voleva più sapere
Perché di pace sentiva il bisogno?
Qui, io, avevo scelto di restare,
Ma quando avevo tutto cancellato,
Senza più nulla a cui dover pensare,
Scopro d’aver me stesso ritrovato.
Eppure qui, o dèi, ero contento,
Lontano da lussuria e tradimenti,
Lontano da qualsiasi sgomento,
Senza ostilità e pentimenti.

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Quarta puntata

Avevo trovato la serenità
Fra il mare aperto e l’aria sana,
In questi luoghi, con la loro beltà,
Tra la ginestra e l’ossidiana.
Con un odore acre di solfara
Che da Vulcano è sempre arrivato,
Con il latte di capra montanara,
Mi sentivo del tutto rilassato.
Non mi aveva più dato pensiero
Saper qual era l’identità mia;
Forse non volevo saper chi ero;
Ora è lei che non capisce chi sia:
Penelope o frutto di follia.
Tu che di lei hai le sembianze,
Tu che hai seguito la rotta mia,
Dentro il cuore avrai vaghe speranze.
Tu, se mi fosti moglie infedele,
Se a te stessa hai fatto affronto,
Mia fu la colpa perché alzai le vele.
Ora perdona se non ci fu sconto
Per colpa di un destino crudele
E attendiamo uniti il tramonto;
Certo neanch’io son stato fedele
E non potrei non tenerne conto.”
Penelope, quasi con lucidità,
Guardava il volto triste di Ulisse.
Prendendo coscienza della verità
Come se parlasse con gli occhi disse:
“Si, Ulisse, leniscimi il tormento,
Non ne ho colpa di quel sentimento,
Giunone m’indusse al tradimento,
Ed io ne provo gran pentimento.
Ma se tu fossi stato più presente
Saprei se Penelope o Giunone
Sono questa con la sconvolta mente
Che in quest’istante prova emozione,
Di fronte a te che voglio abbracciare,
Come se non fosse successo niente;
E nello stesso tempo perdonare,
Io che son stata poco prudente.
Lo so, Ulisse mio, son demente,
Ma forse tu m’avrai perdonato:
Giunone approfittò di me dolente,
Ma il tuo rancor ormai sarà passato.”
Lei lo avvicinò e lo abbracciò,
Lui in silenzio, senza saper perché
E quasi distrattamente, la baciò,
Quindi la strinse dolcemente a sé:
“Se penso a quest’istante d’abbandono,
- Disse - mentre la coscienza m’eleva,
Mi rendo conto che ho perso il tono
- Quel certo tono che mi distingueva -
Quando ogni guerriero mi temeva.
Adesso, che ho già chiesto il perdono,
E mi pesa ancor ciò che m’opprimeva,
Comincio a sospettar quello che sono:
Vecchio, vecchio soltanto nell’aspetto
Quando io vorrei dimenticare…
Esser come a chi si deve rispetto,
Vecchio, senza il poter di ragionare.”
Quindi, al Tempo, Ulisse si rivolse
E lo pregò di lasciargli ancor dire
E il Tempo l’ansia, in lui, colse
Mentre diceva: “Lasciami condire
Col tocco della mia esperienza
Che non è stata saggezza costante
- Di cui riesco ad aver coscienza -
Ma non del tutto insignificante.
Tempo, ci sarà pure un motivo
Se tu sei qui a presenziare,
Come me che, se pur ancora vivo,
Chissà cosa mi dovrà capitare.
Sicuramente mi potrai dire
Se riuscirò a dimenticare,
O quanto meno se vedrò sbiadire
Tutto quello che non si può obliare.”
Così il Tempo rispose eloquente:
“Io sono eterno, ma Omero sa;
Lui ch’è poeta, cantore sapiente,
Puoi essere sicuro, te lo dirà.”
Omero intervenne con orgoglio:
“Ulisse, tu, l’ansia devi frenare.
Il Tempo è qui perché io lo voglio;
Egli deve soltanto misurare
Lo spazio in cui gli eventi devon stare.
Ulisse, anche tu sei misurato,
Motivo per cui non puoi obliare
Il tuo passato triste, insanguinato.
Sono sicuro che ricordi ancora
La profezia di quell’indovino
Per cui sai che l’ultima ora
È già segnata nel tuo destino.
Come tu sai, il Tempo è presente
E scandendo la tua guarigione,
Egli, categorico, ti consente
Di caricarti d’altra tensione.
Attendi con pazienza il destino,
Di sicuro ti condurrà per mano,
Per il sovrano volere divino;
Il tuo crucciarti non può ch’esser vano.
Quel che tu vedi dall’aspetto umano,
Eolo, ti vuole agevolare,
Per un volere ormai sovrano,
La vela tua spingerà sul mare.”
Eolo, in quel preciso istante,
Di sicuro per un’alta volontà,
Col suo aspetto davvero aitante
Ma anche manifestando ogni bontà,
Gli si materializzò davanti
E per giustificarsi con Ulisse,
Ponendosi tra lui e gli astanti,
Parlò del suo operato e disse:
“Come potrei, io, figlio d’umano,
Convogliare i venti sopra il mare
Se non fosse per la divina mano?
Qui conviene la verità svelare:
Mano che tutto muove e decide;
Non conta niente la volontà umana,
Che mai con l’immortale coincide
E solo lei aleggia ch’é sovrana.
Io, usato per camuffare Giove,
Sono creduto con tale potenza
Proprio come chi i venti muove,
Ma io non conservo la mia coscienza.
Divento uno degli dèi potenti,
Son contento di portar gli odori,
Sconvolgo il mare se soffio i venti
E diffondo il profumo dei fiori
Di questa macchia mediterranea.
Mi piace ogni cosa sorvolare
- Dove la ginestra nasce spontanea -
E felice fra le fronde fischiare.
Mi piace anche stuzzicar le donne,
Complice il sole che le fa sognare,
Infilarmi sotto le loro gonne
E i loro corpi stesi accarezzare
Su queste spiagge limpide, accaldate;
In queste terre dell’isola grande,
Ancor prima che inizi l’estate,
Dove nel mito la storia s’espande.
Dalle mie bronzee mura, già cantate,
Quelle che son di lavico pietrame,
E millenarie saranno chiamate,
Spicco il volo su tutto il reame.
Aleggiando al di sopra dei fatti,
Al calore che il sole diffonde,
Occhieggiando le rive e gli anfratti
Col riflesso della luce sull’onde,
Gonfiando ogni vela sul mare,
Sconvolgendo le nuvole in cielo
Ho potuto così attraversare
E sfondare come fosse un velo
L’epoche strane del tempo che scorre,
Spiando dei mortali la speme
E a caso, quasi spesso, deporre,
In posti più impensati, un seme


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QUINTA PARTE



Spàrvero il Tempo, la musa, Omero,

Ma il sogno continuava ancora:

Ritornava Ulisse gran guerriero

In quelle prime luci dell’aurora.

Eolo giunse alla conclusione,

Però Ulisse non poté parlare;

Venne distratta la sua attenzione,

- Dato ch’era rivolto verso il mare -

Da numerose fiaccole accese

Che lentamente stavano avanzando

Dall’arenile verso il paese.

“Qualunque cosa io stia pensando

- Disse Ulisse , molto preoccupato -

Credo che ci sia un’emergenza,

Da quel che io adesso constato:

Vi è una numerosa presenza

D’estranei giù lungo il costone.”

Eolo, osservò da quell’altura

E a Ulisse disse: “Hai ragione:

Cerchiamo di capire con premura

Chi sarà quella gente numerosa;

Non vorrei che portasse sventura.

Prepariamoci a fare qualcosa;

Mi par spedita la loro andatura.

Mentre incominciava ad albeggiare,

Eolo provvedeva alle difese,

Quelle sagome divennero chiare

Intanto che entravano in paese.

Ecco laggiù, sull’azzurra distesa,

V’erano le navi degli sbarcati;

Ma era ormai pronta la difesa

Contro quelli che erano pirati.

Prima di lanciarsi nella battaglia,

Ulisse, vista la questione grave,

Mandò la moglie sotto la muraglia,

Fuori pericolo, dentro la nave.

Prese, arco, frecce e senza paura

Si mise a capo di truppe Morgeti,

Senza neppure addosso l’armatura,

Ebbe in battaglia impeti inconsueti.

Sopra i bersagli tenne gli occhi fissi

E protetto da un verde cespuglio,

Li spedì numerosi negli abissi,

Creando tra i nemici gran subbuglio.

Incoccava, scoccava furibondo

E uccideva con gli occhi severi,

Per i nemici fu il finimondo

E avanzavano malvolentieri.

Dal canto loro, i suoi soldati,

Si comportarono con grand’onore

E furono del tutto spietati

Combattendo con tutto il lor rigore.

Da parte dei selvaggi pirati,

Ch’erano entrati in quelle case,

Furono altrettanto spietati,

Tanto che al suolo furono rase,

Col ferro e col fuoco, senza pena

Per quella gente che chiedeva pietà.

Eolo aprì la caverna piena

Di venti fedeli, una varietà,

E scatenò una vera tempesta,

In mare, su quelle navi pirata,

Delle quali finirono le gesta,

Ed ognuna perì inabissata.

Dei pirati in salvo sol alcuni

Tutta l’isola attraversarono,

Tra fiorite macchie e sassi bruni;

Di rubare una barca pensarono.

V’era tra questi il capo gigantesco

E disse agli altri mentre proseguiva :

“Siamo sconfitti da un dio guerresco.”

E nel mentre Ulisse l’inseguiva,

Con al seguito ben sette guerrieri

- Ma i nemici erano in nove -

Seguivano Ulisse volentieri

Del cui valore non servivan prove.

Giunsero al fine sulla battigia:

Lì, lo scontro non si poté evitare;

Condannati dalla lor ingordigia,

I pirati, dovettero lottare.

Ulisse, impavido, colpì il gigante

Con la spada, sferrando un fendente,

Quello parò, ma lui, incalzante,

Si dimostrò ancora efficiente.

Quello, due palmi lo sovrastava,

Perciò colpiva con spavalderia,

Quindi, Ulisse, costretto parava

E attaccava con grande energia.

Poi, l’eroe d’Ilio, scivolò

Sotto la spinta dell’enorme uomo

Che gli fu addosso e di colpir tentò.

Ulisse, al suolo, si sentì uno gnomo;

Era supino, ma quell’arma scansò,

Quindi, slanciò in alto il braccio armato,

Proprio mente il pirata s’abbassò,

Che come un montone fu scannato.

Cadde col tonfo di una montagna

E caddero con urla di dolore,

Che riecheggiarono sulla campagna,

Tutti i compagni di quel malfattore.

Qualche pirata aveva il sopravvento,

Ma Ulisse la difesa s’addossò;

Per i pirati fu grave sgomento

Perché la schiuma del mare s’arrossò

Del copioso sangue piratesco

Di uomini morti o moribondi,

Essendo stati svenati di fresco.

Lasciati morti quei vagabondi,

Che erano vissuti d’assassini,

Tornarono lesti sui loro passi

Lanciando urli quasi belluini

Mentre correvano fra sterpi e sassi.

Giunsero più tardi alla fortezza,

Un luogo dove tutto era tranquillo,

Ma giù, una nave in tutta la lunghezza,

Era in fiamme fino al vessillo:

Era il vessillo degli Itacesi.

Ulisse fu avvisato e giù scese,

Dove sul molo vide corpi stesi,

Sulla nave ancora fiamme accese

E gente che a spegnerle tentava.

Osservò quei corpi allineati,

Ma già lui tutto immaginava

Nel veder tanti volti esagitati.

Lo stesso Eolo, giunto in loco,

Gli si accostò in modo consolante

E disse: “Sono qui giunto da poco:

È successo un fatto sconcertante.”

Quindi Ulisse andò a controllare

E uno alla volta i teli alzò,

Decisamente senza esitare;

Guardò i corpi e su uno s’attardò:

Era Penelope, nuda e sgozzata

Dal taglio netto d’un’arma affilata,

Dopo essere stata violentata

Da un’ignobile squadra pirata.

Cadde in ginocchio, Ulisse disperato,

Ebbe pensieri dolci per la sposa

E disse: “Forse un dio avrà avversato,

Ma ora, essa, in pace riposa.

A questa, che era la mia regina,

Venga fatto un grande funerale,

Qui, sopra questa splendida marina,

Appena s’alza la luna serale.

Assieme a marinai e ad ancelle,

Assieme alle sue umili serve,

Siano onorate anche quelle,

Che mai, in verità, furon proterve.”

Ulisse, da Eolo rincuorato,

Personalmente l’esequie preparò.

Giammai avrebbe immaginato,

Quando la sposa sulla nave mandò,

Cosa il destino avrebbe riservato

A lei e a tutto l’equipaggio.

Ulisse aveva sottovalutato

La scorreria di quel brigantaggio.


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Seconda puntata


I pirati, sbarcati da più parti,

Fecero molteplici irruzioni,

Così, uno dei tanti reparti

Composto da venticinque predoni,

Vista a prua una donna curiosa,

Decise allor di fare abbordaggio.

I marinai scagliarono a iosa

Le frecce, ma senza alcun vantaggio,

Tanto che poi furono sconfitti;

Le donne tutte quante violentate

- Dopo che gli uomini furon trafitti -

E nelle loro carni martoriate.

Ulisse fece un’unica pira,

Davvero enorme e poi le diede fuoco,

Sopra depose pur la sua ira

E s’addormentò nello stesso loco.

Lo destò l’alba di un nuovo giorno,

Fece alcuni passi sulla sponda,

E intanto che si guardava intorno,

Fu bagnato dalla spuma di un’onda.

Guardò la pira ormai consunta,

Rimaneva soltanto tanta brace.

Si sentì l’anima del tutto munta

E trovava, infine, la sua pace.

Alzò le braccia al cielo verso il sole

Ed implorò la sua protettrice:

Disse: “La mia ferita di gran mole

Non mi può che rendere infelice.

Ascoltami, mia grande Atena,

Non voglio più la tua protezione.

Spezza per sempre questa mia catena:

Non ho per te alcuna avversione,

Ma voglio che scorra il mio destino,

Tranquillamente, senza protezione,

Fino a completare il mio declino:

Non voglio più nessuna illusione.”

Gli apparve Atena, bella, luminosa;

Sembrò staccarsi da un raggio di sole

E con divina voce armoniosa

Lo confortò con le sue parole:

“Tu, Odisseo, figlio di Laerte,

Ascolta zitto questo mio concetto

E scoprirai dove esso verte:

Da sempre sei stato il mio protetto,

Ma il tuo fato era stato scritto:

Quando tu n’avessi fatto richiesta

Non sarebbe più valido l’editto.

Quindi la tua scelta è stata questa.”

Sparve com’era apparsa la divina,

E Odisseo restò più oscurato;

Camminò tanto, fin sulla collina,

Come s’avesse il cuor addormentato.

Gli sembrava eterno ogni giorno,

Passava l’ore quasi sempre solo,

Camminava e scrutava tutt’intorno

E l’orizzonte guardava dal molo.

Poi, ogni isola volle visitare;

Lui, nativo dei luoghi sembrava,

Ma niente lo faceva rallegrare,

Neppur quando con Eolo restava.

A quella mensa c’era allegria

E flauti intonavano motivi,

Ma Ulisse era pieno d’apatia,

Privo di sentimenti affettivi.

Un giorno disse al re dei venti:

“Amico mio, ho voglia di partire

E tu puoi aiutarmi se ti senti:

Forse una nave mi potrai offrire,

Completa d’un discreto equipaggio;

Uomini che partano volontari,

Allora potrò mettermi in viaggio,

Fornito d’acqua e di cibi vari.”

Eolo disse: “Vai dove vuoi;

Non ti vorrò, io, certo fermare;

Sarà sempre amicizia tra noi

E quando vuoi potrai tornare.”

Diversi, tra Morgeti marinai,

Si offrirono di seguire Ulisse:

La loro scelta era fatta ormai,

Ma a ciascun di loro, lui, disse:

“Il vostro è un atto di coraggio,

Avete scelto senza saper dov’è

La destinazione del viaggio

E potrebbe darsi che essa non c’è.

Del mar sapete qual è la scienza;

Anche se partiremo all’avventura

Mi dovete la massima obbedienza:

Io non permetto disinvoltura.

Chi non ci sta, fa bene a ritirarsi

Perché dopo sarebbe troppo tardi,

Ad altre cose potrà dedicarsi

E non riceverà cattivi sguardi.”

Erano trenta uomini robusti

Che d’avventure n’avevano viste,

Per Ulisse erano quelli giusti;

Nessun di loro aveva sguardo triste.

Nessuno ebbe il ripensamento,

Anzi, in tutti c’era euforia.

Arrivò finalmente il momento

Della partenza in piena allegria.

Ogni preparativo era fatto

E venne l’alba di un caldo giorno

E Ulisse sembrava soddisfatto,

Anche perché sul molo e tutt’intorno

Era arrivata gente a salutare

Ed Eolo all’equipaggio disse,

Quando la nave stava per salpare:

“È un onore stare con Ulisse.

Giove vi possa sempre accompagnare:

Io manderò un venticello amico

E che Nettuno controlli il suo mare;

Che si avveri tutto ciò che dico.”

Con le parole di Tiresia in mente,

Ulisse, non poteva sopportare

Di vivere nel dubbio cocente

Che gli continuava a fermentare.

Quando la nave fu in alto mare,

Ulisse lanciò il cuore ad occidente

E non c’era bisogno di remare

Perché essa scorreva sveltamente.

Un venticello nato ad oriente,

Che Eolo aveva indirizzato,

Gonfiava quelle vele dolcemente

Verso un mare poco trafficato.

Passavano i giorni soleggiati,

Seguendo una rotta fuori mano:

Otto, da quando s’erano imbarcati,

E videro una terra da lontano

E su quella puntarono la prua.

Ulisse se ne stava al timone

Tenendo in testa un’idea sua,

Quindi guidava la navigazione.

Sembrava una terra inesplorata,

Ai loro occhi, del tutto selvaggia;

All’apparenza era inanimata

E approdarono su quella spiaggia.

Con dieci uomini sbarcò Ulisse

E s’addentrarono nella boscaglia;

Lui d’andare oltre si prefisse

E videro delle case di paglia.

V’erano greggi, v’erano pastori,

Vi erano le donne e i bambini,

Vi era del vociare dentro e fuori,

Unito al grugnito dei suini.

Era ancora lontano il tramonto

E loro si fecero più vicini,

Ma all’improvviso si resero conto

Che quegli abitanti, come felini,

Li circondarono in un momento,

Apparendo tutti quanti armati;

Probabilmente erano più di cento

E li avevan presi per pirati.

Ulisse, allora, per tutti parlò

E seppe come essere loquace

Nella maniera tale che li calmò,

Dicendo d’essere giunti in pace.


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Terza puntata


In lontananza chiaro si vedeva

Il muraglione d’una roccaforte

E da quella direzione giungeva

Il bagliore di una delle porte:

Porte di bronzo eran, di sicuro,

Allora chiese al suo interlocutore:

"Qual è la città che c’è oltre il muro?”

“Cartagine - disse senza timore -

I sacerdoti hanno decretato

Che, chi da Oriente ha provenienza,

Costui dev’essere qui fermato

E chiunque sia, di conseguenza,

Non gli sarà permesso di entrare,

In quanto portatore di sventura.

Avrete ciò che vi potrà sfamare,

Ma non andrete oltre quelle mura.

Entrò Enea, principe troiano,

E la regina s’è innamorata,

Ma lui se n’è andato lontano

E lei per il dolor s’è suicidata.

D’allora lotte per la successione;

Sembra ci sia la maledizione,

Che dopo la gran divina Didone

Nessuno è degno di elezione.”

Ulisse rispettò tale decreto

E, quindi, fatto il rifornimento

" Ciò che gli interessava in concreto -

Ripresero il viaggio, vela al vento.

Ancora giorni di navigazione

Non distante dalla costa africana,

Verso occidente la direzione,

Stagliante a manca la terra piana.

E passarono due settimane

Da quando dalla terra di Didone,

Con il timone in mani sovrane,

Era ripresa la navigazione.

Quando la nave giunse ad un punto

Che parve ad Ulisse equidistante

Da due terre che avrebbe raggiunto,

Ebbe un’idea illuminante:

Andare verso dritta risoluto

E poi toccar terra più avanti,

Scoprire un paese sconosciuto

E incontrar uomini, chissà quanti.

Approdati, lasciarono la spiaggia,

Ulisse e i suoi quindici marinai,

All’interno dell’Iberia selvaggia

Dove non vi erano stati mai.

Esplorarono, tutti affascinati;

Ulisse catturò un animale,

Nel bosco dove s’erano addentrati,

Per far una pira sacrificale.

Dopo che un gran cinghiale fu cacciato

Per fare al dio Nettuno omaggio,

Sulla vicina spiaggia fu portato,

Proprio in prossimità d’un villaggio.

Tronchi e sterpi furono ammucchiati,

Trovati nei dintorni di quel loco,

Intanto che dagl’indigeni spiati

S’innalzava verso l’alto il fuoco.

Ulisse, rivolto verso il mare,

Con le braccia al cielo sollevate,

Disse: “Nettuno, tu voglia accettare

Queste preghiere a te dedicate.”

Gl’indigeni che stavano nascosti

Si cominciavano a ben fidare

E verso il fuoco andarono composti

Dove Ulisse stava a pregare.

Tutti compresero la funzione,

Anche se il dio a loro sconosciuto

E alla fine con discrezione

Chiesero chi era il benvoluto.

“Poseidone, il dio dei flutti

- Rispose Ulisse e pensò a Tiresia

Mentre si inginocchiavano tutti

Su sabbia scura che sembrava ardesia -

“Egli è il potente fratello di Giove;

Governa e sconvolge, se vuole, il mare;

Per suo volere esso si muove.

Ch’io di lui dovevo parlare

A voi, senza alcuna conoscenza,

Ricordo che m’era stato annunziato

Da un indovino in precedenza,

Quando negl’inferi mi son trovato.”

Per quel che disse ,allora, l’astuto

Come un semidio fu guardato

E quindi ciecamente fu creduto.

Tutta la pira era già bruciata

Quando all’orizzonte mezza sfera

Rossa di fuoco s’era già tuffata.

Eran vicine l’ombre della sera

E pur la cena era consumata.

Le autorità di quel villaggio

Ospitarono, quella notte, Ulisse

Che prima di rimettersi in viaggio

Si rivolse loro e quindi disse:

“Ci servon cavalli per proseguire;

Vi saranno ridati al ritorno:

Di questa terra, io, voglio capire…

Ma sarà breve il nostro soggiorno.”

S’addentrarono per due giorni interi

E appena da un bosco usciti

Ebbero di fronte due sentieri:

Essi andarono a destra spediti,

Per una strada che s’inerpicava

Lungo un colle irto e roccioso

Su cui regale dimora spiccava

Accanto enorme albero ombroso.

Odisseo e i suoi compagni

Proseguivano con lenta andatura

La via costeggiata da castagni,

E quando giunti in una radura

Furono tutti quanti circondati

Da uno squadrone di cavalieri

E da frecce incoccate puntati

Perché eran scambiati per guerrieri

D’una potenza nemica vicina.

In quel paese, veramente strano,

Furon scortati lungo quella china

E condotti al cospetto del sovrano:

Quello, “Chi siete”: chiese austero.

“Io sono il re d’Itaca: Ulisse

E sono in viaggio senza alcun mistero:

Cerco chi possa informarmi – disse –

Se ci son terre al di là del mare,

Perché la mia ansia mi spinge

Di là oltre, per poter esplorare,

Dove la sera di rosso si tinge.”

Il re s’alzò dal trono e lo abbracciò,

Mentre gli occhi si bagnava di pianto,

Quindi a prender parola si slanciò:

“L’unico figlio, a cui tenevo tanto,

Tentato dalla voglia di sapere

E contro qualunque mia volontà,

Con l’ansia che non si può contenere,

Ha preso il largo qualche anno fa.

È andato dove tu vuoi andare,

Con una squadra di giovani prodi.

Io la vela gli ho visto alzare

E d’allora ho in gola mille nodi

Perché non torna da quell’avventura

Nella direzione in cui non so

- Quantunque la speranza ancora dura -

Se abbia trovato terra, oppure no.

Ma posso dire quel che si racconta:

Si dice di creatura mostruosa

Che d’orrore nel cuor lascia impronta

A chi d’avventurarsi di là osa.

Sopra un rottame fu sputato a riva,

Da fauci che eran sì possenti,

Un pescator che vide l’offensiva

Contro sette navi, tutte presenti,

Fianco a fianco sopra quei flutti.

Ebbe il tempo, con gli occhi d’orrore,

Di raccontare la fine di tutti

E poi spirò per arresto del cuore.



...........................................


Ultima puntata


Sembrava fosse stato masticato

Il legno di quelle imbarcazioni

Quando sulla riva venne portato

Dalle future inondazioni:

Capimmo tutti quanto fosse vero

Il resoconto di quel moribondo.

Or rivedere mio figlio spero,

Ma il mio timore non nascondo.

Io son re, ma anche padre sono

E mio figlio vorrei cercare,

Per il pericolo non m’impressiono

E la mia esperienza può contare.

Se parti, io, Lacos, con te verrò,

Straniero che fiducia m’infondi,

E non ha importanza se navigherò

Verso la morte o per altri mondi.”

“Sono felice se il mio destino

- Disse, il Greco, con esaltazione -

Partendo, in un prossimo mattino,

Lo lego al tuo per nobile ragione.”

Quel sogno, come in ver, mi conduceva:

Lacos e gli altri seguivan Ulisse

Che al galoppo in testa procedeva

Verso il villaggio amico e disse:

“Questa notte saremo ospitati,

Cortesemente, dai capi villaggio.”

Ulisse, dei guai sopportati,

Quella sera, poté dare un saggio

E raccontò della rocca di Troia:

Quando il figlio di Giove e di Latona

- Certamente non lo fece per noia -

Lanciò un feral morbo sulla zona.

Fu quello il tempo in cui meno brillava

Il valore dell’esercito acheo:

Ulisse verso le navi tornava,

Avendo Achille, figlio di Peleo,

Per una stizza, abbandonato il campo,

Dopo l’onta subita dall’Atride.

Sembrava che non ci fosse più scampo:

Quand’anche Patroclo la morte vide.

Ulisse ai presenti raccontava

Che quando fu in vista delle navi

E con il re Menelao avanzava

Incapparon in fatti molto gravi:

“Dalla boscaglia un gruppo di troiani,

Armati di scudo e fino ai denti,

Feroci, come rabbiosi cani ,

Scagliando lance, sferrando fendenti,

Ci costrinsero alla difesa estrema.

Eravamo ormai com’interdetti,

Per difenderci c’era un solo schema:

Spalle a spalle, dagli scudi protetti.

Menelao, colpito, - ormai già stanco -

Da una lancia, ma non mortalmente,

Sanguinava copioso da un fianco,

Quindi non era più tanto efficiente.

Caddero intorno a noi tanti nemici,

Urlavano come latrano i cani,

Sbuffavan come tori le narici,

Ma molti non videro il domani.

Io alzavo lo scudo, sveltamente

E colpivo fulmineo al bassoventre,

Col taglio dell’arma, orizzontalmente.

Non era immaginabile in quel mentre:

Cominciai a ridere sguaiatamente,

Lo stesso Menelao fu sorpreso,

Ma poi capì cos’avevo in mente

In quel momento dello scontro acceso.

Ebbero un attimo d’esitazione,

Io, spregiudicato, avanzai

E dissi: “È nulla la vostra azione:

Io sono Achille – forte gli gridai –

Sapete che sono invulnerabile,

Quindi con le armi nulla potrete

Perché io sono invincibile;

Vivrete soltanto se fuggirete.”

Di quelli ch’eran quindici aggressori,

Otto erano stati atterrati;

Gli altri placarono i loro ardori

Convinti di essere condannati,

Come i loro compagni caduti.

Io perseveravo dietro l’elmo

A sghignazzare e quelli, risoluti,

fuggiron via, mentre io fermo

E imperterrito, lì, continuavo

- Nel mentre Menelao sospirava -

Gli urli miei dietro gli lanciavo.

Il re di Sparta a me s’appoggiava

E quando già era finito il giorno,

Finiti ch’erano anche i guai,

Al calar delle ombre tutt’intorno,

Sulla nave Menelao portai.”

Ogni locale era disadorno,

Dentro cui passarono la notte,

Infine arrivò il nuovo giorno,

Mangiarono un po’ di carni cotte

E si avviarono per il ritorno.

Ulisse, con la mente ispirata,

Dalla nave osservò tutt’intorno,

Dopo che fu la vela spiegata.

Il viaggio voleva continuare,

Oltre lo stretto iberico - africano,

Verso occidente voleva andare,

Dove tutto diventava arcano.

Oltre la porta del Mediterraneo,

Chiamata anche Colonne d’Ercole.

Con un suo pensiero estemporaneo

Il laerziade disse: “Eccole;

Noi, al di là, dobbiamo esplorare.”

Alcuni marinai, ciò sentendo,

Il sangue si sentirono gelare

E tra loro andavano dicendo:

“Forse nessuno ci vedrà tornare,

Da un’avventura davvero sì strana,

In cui non ha senso continuare,

Perché si tratta d’un’impresa vana.”

Lacos, disse: “Amor di conoscenza

Spesso può portare a rischiare;

Purtroppo non è di tutti competenza

E non tutti si possono immischiare.”

Ascolta, figlio, sento il bisogno,

Dal momento che tutto ha un finale,

Di raccontarti dove sboccò il sogno

Di una strana notte di Natale:

Sul mar parve dissolversi la nave,

All’interno d’una nebbia confusa

E dentro una voce era la chiave

Che io udii nell’inconscio schiusa;

Era la voce del cieco Omero

Che m’illuminava come un faro,

Stranamente tutto sembrava vero

E per me resterà un suono caro;

Come quella d’un dio tuonò e disse:

Qui, mortale, è chiusa la vicenda;

nessuno mai rivedrà più Ulisse:

Egli è parte di una leggenda.”


F I N E







PAGINE SUPERSTITI E DRAMMI DI CASTA

Romanzo


***


(Preludio)
……………………………………
……………………………………
……………………………………

Quando saremo vecchi,

quando il pentimento ci renderà saggi
apprezzeremo quello che abbiamo perso
durante la corsa sfiancante
che nulla ci ha fatto gustare.
Eppure sapevamo: sul Nostro Mare
passarono la storia più grande,
il mito, gli dei, gli eroi,
però, falsi semidei, noi,
che giammai ammettemmo
di essere arroganti,
li abbiamo disprezzati,
rimanendo giocati!
(Giuseppe Messina)

***


PRIMA PARTE



Il raccontare cose di Sicilia


Assassinato come un cane randagio sulla strada, di notte, per volontà mafiosa, come altri uomini veri, coraggiosi e “scomodi” prima di lui. Assassinato, sì, ma vendicato: vendicato dai componenti di una antica setta che dimostrano come la fantasia superi la realtà, una realtà assurda, maligna che lui conosceva fin troppo bene. Ciononostante aveva voluto combattere testardamente da solo pur sapendo che, una simile realtà, lo avrebbe potuto condannare a morte.

Assassinato, ma vendicato: una vendetta particolare; tanto raffinata quanto inimmaginabile, tanto che neppure lui, fervida fantasia e prolifica intelligenza, avrebbe potuto concepire.

Fin da quel lontano mese di aprile del 1967, quando lascia la Sicilia, il suo pensiero fisso è quello di fare ritorno a Barcellona Pozzo di Gotto. Il suo cognome sembra un chiaro omaggio al corso d’acqua, simbolo della città che gli aveva dato i natali: Longano, Giuseppe Longano. Si tratta dello scultore-pittore che il cantore dei poeti, Antonio Labate, soprannomina “Ulisse”: un artista che, tra l’altro, ha al suo attivo diverse pubblicazioni letterarie. Egli che in Sicilia ritornava solo di tanto in tanto - di solito nella stagione estiva, quando s’incontrava con un numero sempre più ristretto di vecchi amici a causa, man mano, della loro dipartita - da poco tempo decide di stabilirsi nella sua città e, in questa occasione, lo troviamo in compagnia di tre personaggi: uno è il professore Nino Bellinvia – un barcellonese che vive lontano dalla Sicilia - squisito uomo di cultura, giornalista, poeta, editore e critico che dell’artista conosce quasi tutto; l’altro è il professore Pippo Labisi che passa soltanto pochi mesi l’anno a Barcellona Pozzo di Gotto, poeta, storico, commediografo, ma soprattutto dialettologo, e proprio in questa veste ha tenuto conferenze nelle più importanti università europee, americane e asiatiche; il terzo non poteva che essere il prof. Santi Correnti - in questo caso ospite venuto da Catania - storico, creatore della cattedra di storia della Sicilia, medaglia d’Oro della Pubblica Istruzione, eletto “Siciliano dell’anno” nel 1991, autore di una ottantina di volumi di storia, leggende, motti e proverbi popolari ecc. I quattro, si trovano sotto lo stesso ombrellone, sulla spiaggia di Spinesante, a Barcellona Pozzo di Gotto, proprio di fronte alle isole Eolie. Dopo aver fatto apprezzamenti sulla mastodontica opera dello straordinario personaggio qual è il Labisi, specie in riferimento al trattato sul dialetto “Gallo Italico”, il professore Bellinvia fa delle considerazioni, anche, sull’ultimo bellissimo libro di Matteo Collura.

A seguito di una breve pausa, mentre il loro sguardo si perde lontano sul mare, verso le isole del dio dei venti, quasi coperte dalla foschia estiva, con in sottofondo il fruscio delle onde, il vociare dei bagnanti e soprattutto dei bambini, il professore Bellinvia chiede all’artista:

“A cosa ti stai dedicando attualmente? Non dirmi che stai scrivendo un altro poema…”

“No. Con i poemi ho chiuso, almeno per adesso.”

“Sono convinto che se stai scrivendo qualche cosa alla fine tratterà comunque della Sicilia. Non è così?”

“Credimi, amico mio, non ho più voglia di raccontare cose di Sicilia.”

“Se non si sapesse che ami tanto quest’isola ci crederemmo, quindi non è pensabile che tu stia parlando seriamente.” Commenta il professore Correnti.

“Sto dicendo proprio la verità.”

“E perché mai.” Chiede il Correnti.

“Perché… perché da quando ho deciso di rimanere qui per sempre, mi sono convinto che la Sicilia è per me come la donna amata…”

“A maggior ragione – interviene il prof. Bellinvia – non si può credere a quello che dici”.

“Amici miei, alla donna amata si scrive, e si scrive della donna amata quando si sta lontano da lei, ma quando si vive dove vive lei non vi è motivo di scriverle o di scrivere di lei. Quando si sta con la donna amata si gode della sua presenza; però ammetto che, consciamente o inconsciamente, si può essere tanto ispirati da lei.

Io amo moltissimo la Sicilia, prova ne è che per tutto il tempo in cui sono stato lontano ho fatto di tutto per fare ritorno. Adesso mi sento come appagato. Sono altri autori che devono scrivere di questa terra: tutti quelli che stanno lontano e vivono di nostalgia, e forse vorrebbero tornare ma non possono, oppure, per un qualsiasi motivo, non vogliono. Fanno le loro apparizioni per, più o meno, brevi periodi e poi se ne ritornano in continente, dove hanno costruito le loro agiatezze, il loro avvenire. Questi resteranno sempre come quegli operai emigrati all’estero che lasciavano al paese le mogli dalle quali facevano ritorno di tanto in tanto e, in quel poco tempo che rimanevano con loro, le ingravidavano e poi se ne ripartivano. C’è, però, una sostanziale differenza: quando gli artisti, gli scrittori siciliani ritornano sono loro stessi che si lasciano ingravidare dalla storia, dal paesaggio, dalle miserie e dalle sciagure, dalle piaghe e anche da tutte le meraviglie della Sicilia, per andare poi a partorire lontano, quindi mettere sul mercato le loro fruttuose creature sottoforma di opere d’arte – proprio come ho fatto anch’io fino adesso – quelle stesse opere che, comunque, rifletteranno l’anima di una terra che non vi è uguale, e nulla del suo splendore vi si potrà trovare altrove. È grazie a tali uomini della inevitabile e salutare diaspora, a tali artisti e letterati, grazie alle loro opere se la migliore Sicilia è conosciuta nel mondo. Altrimenti, per gli altri, saremmo un popolo che produce soltanto mafiosi e miseria. Purtroppo tutti quei privilegiati siciliani, che sentono qualcosa di straordinario dentro, sono stati costretti ad andare via e devono continuare ad andare via. Se malauguratamente fossero rimasti qui cosa sarebbero diventati i vari grandi della letteratura, dell’arte come Luigi Pirandello, Salvatore Quasimodo, Francesco Messina, Renato Guttuso, Emilio Greco, Salvatore Fiume, Emilio Isgrò, Melo Freni, Matteo Collura e tanti altri? Ed io stesso chi sarei adesso in questa città incolta, ad alto tasso di criminalità, mal cresciuta, testarda, la cui maggioranza degli abitanti è fatta di formiche che non pensa ad altro se non ad ammucchiare averi, a fare soldi? Saremmo diventati tutti degli anonimi, se pur utili, avvocati, architetti, docenti, tecnici comunali, magari tutta gente atta per fare da codazzo ad ottusi politici compiaciuti, ma indifferenti al fatto che proprio qui manca, tra l’altro, quel presupposto che potremmo chiamare industria culturale; e chissà quanti anonimi artisti di periferia, depressi a causa delle tante idee abortite o con le proprie creazioni in soffitta, che non avrebbero conosciuto la ribalta del successo. Così non avremmo potuto dare il nostro onesto contributo alla Sicilia. Comunque, io sono una delle poche eccezioni che confermano la regola. Sì, sono un’eccezione, dato che testardamente ho sempre sognato di ritornare in Sicilia, in questa mitica terra dove ho scelto di venire a morire. No, cari amici, io non ho più voglia di scrivere della Sicilia. Adesso, finalmente, mi sto dedicando a mettere assieme le tessere sparse di un trentennio di lavoro che mi piace definire il mosaico che narra, oltre alcune mie esperienze o il mio stesso pensiero, le avventure, le vicissitudini, i drammi, le angosce, le debolezze, le virtù di alcuni personaggi, vissuti in un arco di tempo che sono riuscito a ricostruire. Questi appartengono al mio casato o hanno avuto a che fare con persone dello stesso casato il quale, a quanto sembra, è uno dei più antichi della Sicilia, di cui si hanno notizie fin dal XIII secolo.”

“Spero tu ti renda conto che ho ragione io.” Sostiene il Professore Bellinvia.

“Cosa vuoi dire?” Chiede L’artista.

“Voglio dire che ti stai interessando di cose di Sicilia: se parli del tuo casato non puoi raccontare che cose di Sicilia. Non sei d’accordo?”

“Già… Forse hai ragione veramente… Però sento la Sicilia come la mia donna: sono qui con lei, l’amo, godo del suo splendore, delle sue meraviglie, soffro con lei e per lei, ed è a lei che voglio dedicare il tempo che mi resta da vivere.”

Contemporaneamente il professore Santi Correnti accenna un sorriso nel più eloquente dei suoi silenzi.


***

“Le tessere sparse di un mosaico costato un trentennio di lavoro…”. Un insieme di ricerche e ricordi, appunti, singoli fogli raccolti che chiama “Pagine sparse e drammi di casta”.

Ultimamente aveva intrapreso a trascorrere le sue giornate in modo inquieto. Fin dalle sei del mattino si dedicava freneticamente al suo lavoro. Sembrava ansioso di finire di scrivere il suo libro, ansioso di racchiudere l’esistenza della sua casta, ed altro, in un volume da consegnare ai posteri.

Da lì a breve il solenne annuncio della imminente pubblicazione, in quella che sarà ricordata come una tragica manifestazione culturale. Purtroppo l’opera del maestro Giuseppe Longano sembra essere tra le cose più maledette prodotte da un essere umano, come maledetto l’evento – Chi l’avrebbe detto? – che gli impedirà di vedere pubblicata la sua fatica letteraria: solo adesso, dopo il suo assassinio, grazie al figlio e all’amico Attilio Mitto, la sua creatura, completa di una seconda parte, può vedere la luce. Leggendo quest’ultima parte apprendiamo che egli prevede che sarà ucciso e anche in che modo. Tutto un’insieme che potrebbe essere definito “Il lucido testamento del maestro Longano”, ma questo “insieme”, per volere del figlio, è intitolato “Pagine superstiti e drammi di casta ovvero l’immagine sfocata del futuro”.

***

(Epilogo)


È un sabato del mese di aprile dell’anno 2003 e, nella stessa mattinata, il volume col titolo “Morte di un editore” – ironia della sorte – appare nelle vetrine delle librerie. L’editore, Armando Carpali, proprio per quel tardo pomeriggio, aveva programmato la presentazione in una pubblica conferenza. La manifestazione era già stata annunciata da tre mesi, con un continuo battage pubblicitario non indifferente, su diverse testate giornalistiche, per cui aveva suscitato un interesse generale. Tocca, quindi, allo stesso editore fare i cosiddetti onori di casa, con l’intervento dell’autore, alla presenza di un folto pubblico, tra cui autorità del mondo religioso, della cultura e della politica, infatti è proprio lui a dare il via alla presentazione del libro, motivando la scelta di tale pubblicazione con una stringata introduzione. In quella stessa occasione approfitta, in conclusione, per annunziare che la sua casa editrice sta preparando la pubblicazione del prossimo libro, dal titolo “Pagine sparse e drammi di casta” di anonimo. Non ha ancora finito di parlare quando fra il pubblico si alza un uomo anziano e, mentre si accosta al tavolo delle autorità, estrae la pistola e fa fuoco sull’editore, che è colpito a morte. L’attentato suscita lo scompiglio in sala; due donne, per lo shock, cadono svenute, ma, ciononostante si verifichi un fuggi-fuggi generale, lo sparatore è immediatamente bloccato, disarmato e portato via, intanto che dice, gridando:

“Bastardo non hai voluto pubblicare il romanzo della mia vita. Hai detto che la mia storia non interessa a nessuno: adesso vedremo se i giornali si interesseranno di me… Vedremo… vedremo… Lo sapranno tutti chi è don Felice il Moschettiere…”

Il gesto di quell’uomo non potrà che essere considerato come il gesto incontrollato di un povero ammalato di mente che crede quella della sua vita essere la storia avventurosa, della quale se ne sarebbe potuto trarre un film.

Il suo amore per i libri aveva portato Armando Carpali a rifiutare il posto fisso in banca, dopo il conseguimento della laurea in economia e commercio e subito dopo quella in lettere classiche. Nessuna delle lauree gli era servita per entrare nel mondo del lavoro, né tanto più gli interessava occuparsi del considerevole patrimonio dei suoi genitori: compito che aveva delegato al fratello minore. Il suo chiodo fisso erano i libri. Aveva cominciato, aiutato dal padre, con una libreria nel centro storico di Messina, ma non era soddisfatto: lui i libri voleva pubblicarli in proprio, tanto che, per iniziare, comincia col pubblicare una sua raccolta di poesie e, poi, l’anno successivo, un racconto “Un decennio di morti ammazzati tra Barcellona e Messina”. Il suo salto di qualità, come editore, riesce a farlo grazie ad un amico d’infanzia, Attilio Mitto che lo presenta a Giuseppe Longano, destinato a diventare quello che è definito un poliedrico artista, che aveva cominciato come scultore da giovanissimo. Quest’ultimo gli affida la cura e la pubblicazione di una sua raccolta di poesie d’impegno sociale. Dopo questa prima esperienza ben riuscita diviene l’editore con cui il maestro Longano pubblicherà tutti i suoi lavori letterari e cataloghi delle mostre.


* * *


(Prologo)


Armando Carpali, editore fantasioso e generoso, durante uno dei suoi viaggi ha occasione di conoscere, in Sardegna, uno di quei pittori randagi che vivono alla giornata, della generosità altrui. Lo nota al margine di una pubblica aiuola, in una piazza; è intento a dipingere una piccola tela, verso mezzogiorno di una domenica di luglio. L’editore si ferma ad osservarlo, quindi può apprezzare la maestria di una mano sicura. L’opera è quasi completata e, l’editore, decide di aspettare che sia del tutto ultimata poiché ha intenzione d’acquistarla, dal momento che gli ricorda il più puro impressionismo francese, precisamente quello dell’artista Pierre Auguste Renoir. Il dipinto rappresenta uno scorcio di paesaggio; Armando Carpali si fa più vicino, intanto che il pittore lava i pennelli, e chiede:

“Per quanto me lo venderesti?” quello si volta, guarda il suo interlocutore e risponde:

“Ti interessa?”

“Si, desidero comprarlo.” Risponde l’editore.

“Dammi cinquanta Euro e il quadro è tuo.” Dice il pittore. Così Armando, senza mercanteggiare, prende dalla tasca i soldi e, intanto che glieli porge, dice:

“Ho la macchina parcheggiata qui vicino, portalo: lo mettiamo nel bagagliaio.” Il pittore ripiega il cavalletto snodabile, lo lega con una cinghia di cuoio sulla cassetta dei colori, prende la tela dipinta e segue l’editore che strada facendo si presenta e poi gli chiede:

“Qual è il tuo nome?”

“Andrea, Andrea Marzio.” Risponde quello, che non conta più di venticinque anni.

“Vuoi venire con me al ristorante? Ti offro il pranzo.”

“Grazie, accetto.” Risponde Andrea. Più tardi si trovano seduti allo stesso tavolo a chiedere il menu. Alla fine del pranzo sono già diventati amici. L’editore lo invita a visitare la Sicilia, garantendo vitto e alloggio per tutta l’estate, purché, in cambio, gli dipinga alcuni quadri. Andrea accetta e, poco tempo dopo, si trova ospitato in una casetta, in periferia di Barcellona Pozzo di Gotto, in cui non manca nulla; vi è, anche, un capiente frigo pieno di ogni cosa buona. Quello è il luogo dove, Armando Carpali, spesso, si ritira, per leggere nella massima tranquillità i manoscritti che più lo incuriosiscono tra quelli che gli vengono sottoposti e che personalmente sceglie se pubblicare o meno. In quella casa si trovano, quindi, diverse opere da pubblicare e alcune già pubblicate.

Stilato un elenco con dieci temi, l’editore lo consegna al pittore spiegando che ciascun tema deve servirgli come fonte d’ispirazione per realizzare un dipinto. I dieci quadri, una volta ultimati, serviranno per illustrare un libro da pubblicare entro l’anno successivo.

Una tarda mattina, mentre Andrea dipinge sul terrazzino, sbadatamente fa cadere una latta da cinque litri, piena di diluente, che sta sul tavolo da lavoro, un liquido, altamente infiam-mabile, che egli usa per lavare i pennelli e allungare il colore ad olio. Molto del contenuto della latta va a versarsi sul pavimento. Andrea asciuga alla meglio, con uno straccio che poi lascia sotto il tavolo. Non si rende conto che del diluente è finito nel portacenere e dell’altro è andato a scorrere per le scale. Qualche minuto dopo, soprappensiero, automaticamente, il pittore si accende una sigaretta e butta il fiammifero ancora ardente dentro il portacenere da dove si sviluppa, improvvisamente, una fiammata che si espande per tutto il tavolo. La stessa latta e i colori prendono fuoco causando una esplosione. Immediatamente le fiamme si propagano sul pavimento dove vi è lo straccio inzuppato del liquido e, naturalmente, per le scale e, quindi, giù al piano terra. Sotto le scale vi è uno scaffale con dei libri e giornali sul quale era finito il diluente. Nel giro di pochi minuti tutto prende fuoco, ed il povero Andrea, salvo per miracolo dall’esplosione, si dà da fare per spegnere le fiamme. Vi è un tubo di gomma, lo innesta ad un rubinetto, apre l’acqua e cerca di salvare il salvabile. Ma, ormai, di ciò che conteneva quello scaffale rimane molto poco. Nello stesso mobile vi era anche un manoscritto che l’editore aveva ricevuto accompagnato da un biglietto firmato in busta chiusa su cui, tra l’altro, vi era scritto:

“Carissimo Armando, se credi opportuno, dai alle stampe questa mia opera, però, per ovvi motivi, mi piacerebbe che il testo venisse pubblicato anonimo”. Il biglietto è firmato Giuseppe Longano.

Il povero pittore, spaventato, guarda il danno che involontariamente aveva causato, poi i suoi occhi si posano proprio su quel volume bruciacchiato che era caduto sul pavimento; lo prende e comincia a sfogliare ciò che rimane. Delle primissime pagine solo la metà di una è salva, sulla quale Andrea Marzio può leggere dei versi:


Ho ucciso la noia

Sono stato giustamente crudele

come ho creduto fosse mio diritto,
in cuore gioia e in bocca miele,
con la noia ho vinto il conflitto;
senza alcuna pietà l’ho assassinata:
l’ho trafitta con pennelli, scalpelli
e nel fango l’ho, quindi, abbandonata
dopo averla ridotta a brandelli.
Non avrei potuto soggiacere
immobile alla noia sconvolgente
e l’ho uccisa, con grande piacere,
per evitare di sentirmi un niente.

Quindi, il pittore va avanti, sfoglia e legge. Poi si siede su un gradino, ancora impantanato d’acqua, e continua a leggere nonostante, qua e là, le tante pagine andate in fumo, finché non giunge alla conclusione.

* * *


Baroni di Gurafi e di Noto


Le fiamme causate dal gesto incontrollato, superficiale del giovane pittore avevano divorato molto della parte iniziale del manoscritto, frutto di anni di lavoro, di ricerche, di meditazioni, di riflessioni per creare un quadro, un insieme del passato e del presente con cui Giuseppe Longano potesse immaginare la proiezione delle proprie radici e di se stesso nel futuro. Pertanto comincia così la narrazione, con la parte finale di una frase:

…dal momento che mi è stato impossibile indagare scrupolosamente e compiutamente sull’arco di tempo che va dalla fine del XIII al XVII secolo. Proprio verso l’inizio del XVIII secolo, nella baronia di Gurafi, territorio di Castroreale, distante circa quarantacinque km dalla città di Messina verso Palermo, viveva la famiglia di un nobile uomo, mio antenato, di nome Salvatore, di Francesco, di Salvatore col titolo di barone di Gurafi e di Noto, buono, generoso, di grande cultura e con un alto senso della giustizia. Di solito ripeteva: “Il mio senso della giustizia è un fatto ereditario; credo che i miei antenati l’abbiano appreso da Federico secondo di Svevia, lo Stupor Mundi”. Un senso della giustizia sicuramente ereditato anche dal nonno materno, se non altro per la sua passata appartenenza ad una famosa setta di giustizieri, quella dei “Beati Paoli” di cui si avrà modo di riferire. Proprio per questa sua formazione mentale ci teneva aprire spesso il più grande salone del suo palazzo per tenere convegni di alta cultura i cui temi erano la giustizia, la poesia, la storia, la musica, ma anche l’impegno sociale. Il barone era fiero di sentirsi utile e disponibile, tant’è che invitava le persone anziane, detti saggi, e tanti giovani amanti della cultura di qualunque classe sociale. Egli cominciava con un suo discorso introduttivo che di solito concludeva dicendo: “Tutto ciò per la crescita culturale della società”. Poi cedeva la parola ai saggi che parlavano ciascuno della propria competenza ed esperienza di vita e, quindi, si dava spazio ai ragazzi, che potevano porre tutte le domande che volevano, a cui erano date successivamente le adeguate risposte. Il barone aveva un unico figlio, maschio: Francesco, che era venuto al mondo quando lui aveva già compiuto i quarantacinque anni, ma aveva avuto un’altra figlia: Clara, che a diciassette anni stava per essere rapita da Cesare Merlo figlio del barone di Tripi. Clara era una ragazza bellissima; aveva occhi chiari ed i capelli rosso oro. Era stata promessa in moglie ad un giovane del nobile casato di Furnari. Si diceva che sarebbe stato uno dei pochi matrimoni d’amore del tempo, ma non era destino. Cesare Merlo, venuto a conoscenza della leggiadria della fanciulla, per poterla ammirare, frequentò per diverse domeniche la chiesa di San Sebastiano a Barcellona nella quale la giovane si recava per ascoltare la messa. Un pomeriggio d’estate osò, addirittura, penetrare di nascosto nel giardino della casa di lei, quando Clara sonnecchiava sopra un’amaca sotto un pergolato, tra glicini, rose di vari colori, macchie di alloro, aiuole di garofani variopinti e altri fiori. Cesare aveva deciso di dichiararsi innamorato, ma lei lo cacciò via dicendo: “Andate via! Come avete osato introdurvi in questo giardino? Andatevene o chiamo aiuto!” “Va bene, me ne vado, ma io non sono qui per farvi del male: io sono Cesare Merlo, figlio del Barone di Tripi. Voglio dirvi che vi amo e…” “Ho detto andatevene! – Lo interruppe la ragazza – io ho già un fidanzato!” “Me ne vado, me ne sto andando. Non gridate, ma ricordatevi che io vi amo e se non sarete mia nessun altro avrà la fortuna di avervi come moglie!” Cesare era quello che potrebbe essere definito un bel giovane, alto, prestante con folta chioma nera; ma aveva fama di risoluto malandrino senza scrupoli, e, non più tardi di quindici giorni dopo, organizzò il rapimento della giovane Clara. Era di domenica quando una carrozza con il cocchiere a cassetta e due uomini a bordo sostava davanti alla chiesa di Barcellona frequentata dalla baronessina. Alla fine della messa i fedeli uscivano dal luogo sacro e si avviavano ciascuno verso la propria abitazione. Anche Clara, in compagnia della sua governante, intendeva fare ritorno a casa, ma non poté arrivare alla sua carrozza; due energumeni l’afferrarono per le braccia e sollevandola di peso la scaraventarono dentro quell’altra carrozza che era in attesa. La fanciulla reagì con vigoria inaspettata, tanto che sorprese i due malfattori, infatti con uno strattone si svincolò dalla loro presa, aprì lo sportello dalla parte opposta e fece per saltare, però uno dei due rapitori riuscì ad afferrarla per una caviglia, così che la ragazza, impastoiata, rovinò a faccia in giù dalla carrozza nello stesso momento che sfuggiva dalla presa dell’uomo. Andando a sbattere con la fronte sulla massicciata della strada, Clara, rimase immobile, mentre copioso il sangue fuoriusciva da una vasta ferita alla testa. Intanto che la carrozza con i due uomini a bordo si allontanava in fretta, col cocchiere che sferzava i cavalli, la governante di Clara ed altre persone cercavano di soccorrere la ragazza, ma non poterono che constatarne il decesso. La governante rammentò che Clara le aveva confidato dell’intrusione del giovane Cesare nel giardino di casa e quale minaccia le avesse lanciato, quindi raccontò tutto all’anziano barone suo padrone il quale chiese giustizia al viceré che reggeva il potere in Sicilia, ma non furono trovate prove certe contro Cesare. Ciononostante il barone di Gurafi e di Noto restò con la convinzione della colpevolezza di quel malandrino per il quale nutrì per tutta la vita un odio viscerale. L’anziano barone era un uomo mite, tranquillo che detestava la violenza e, di conseguenza, l’uso delle armi, ma da quando gli era morta la figlia, ad ogni piè sospinto, era solito dire: “Se fossi più giovane e sapessi usare le armi saprei io come punire quel malfattore”. Ma perché l’anziano signore aveva sempre detestato le armi? Semplice: egli era stato così educato dalla propria madre. Quest’ultima, di origini palermitane, donna di alta moralità, aveva appreso che il padre, Gaetano D’Alfino, si era macchiato del sangue di un innocente. Ella gli aveva raccontato tutto e lui l’aveva voluto trascrivere nelle memorie della sua vita; un’opera letteraria degna di nota, rinvenuta, nei primi anni del novecento, in un antico palazzo al centro di Balzan, nell’isola di Malta. Della stessa opera sarei entrato in possesso in modo casuale nel gennaio del 2000. Don Gaetano, del casato dei baroni D’Alfino, diseredato dal padre per aver scoperto la sua affiliazione alla succitata setta dei “Beati Paoli”, esercitava in Palermo il nobile mestiere di fabbricatore di carretti siciliani - quelli tutti intarsiati e dipinti a colori sgargianti, con sulle sponde scene dell’Orlando e i Paladini di Francia - arte della quale era rimasto incantato fin da bambino, vedendola praticare ad un artigiano della sua stessa baronia. Pertanto lavorava da solo, con grande passione, nell’ampia bottega, anche se, benestante com’era, non avrebbe avuto bisogno di faticare. Un tardo pomeriggio, dopo ore di duro lavoro, aveva ricevuto nella sua bottega un cliente il quale doveva saldare il conto del carretto che aveva comprato in precedenza. Era una somma di tutto rispetto e don Gaetano D’Alfino l’incassò, quindi aprì un antico armadio, prese una bottiglia e versò un po’ del suo contenuto in due bicchieri di terracotta, ne porse uno al cliente e disse: “La puntualità di un cliente galantuomo merita un brindisi: beviamo alla salute”. “Alla salute”. Concordò il cliente, e bevvero del buon vino che tale doveva essere vista la compiaciuta espressione dei loro visi, intanto che lo sguardo dei due era attratto dalla presenza di un giovane che bighellonava poco distante la bottega. “È Vanni il figlio di Matteo il brigante quel giovanotto lì o mi sbaglio?” chiese il cliente a don Gaetano D’Alfino. “Sì, è lui – confermò l’artigiano – e pare ne abbia preso dal padre; chissà quanti ne farà piangere…” “Speriamo che incappi in qualche osso duro di quelli che riescano a fargli rompere i denti, così la bestia non potrà più mordere”. Commentò il cliente che, finito di gustare il vino, salutò e lasciò la bottega del D’Alfino. L’artigiano lo segui con lo sguardo finché quello non svoltò l’angolo pochi metri più il là. Fece per tornare al suo lavoro, ma si fermò un istante, quindi si affacciò e si soffermò un attimo a scrutare la strada, quanto bastò per rendersi conto che il figlio di Matteo il brigante non gironzolava più nei pressi, così fischiettando, prese a intarsiare il laterale di una delle aste di quello che sarebbe stato un futuro carretto.

Era quasi sera, la luce era calata sensibilmente, e fu costretto ad accendere un grosso lume che penzolava dal soffitto. Aveva ormai completato l’operazione quando avvertì una presenza alle spalle, si girò e si trovò con la punta di una lama che gli sfiorava la gola; una lunga affilata lama che un uomo incappucciato impugnava.

“Oggi hai incassato delle buone somme – disse l’aggressore – ed io voglio la borsa nella quale le hai depositate. Su, svelto se non vuoi che ti tagli la gola”.

“Va bene, farò come dici tu”. Disse don Gaetano e, infilata la mano sotto il pettorale di pelle di capra di ciò che fungeva da grembiule, tirò fuori una borsa abbastanza gonfia. Strappatagli la borsa di mano e tramortito il malcapitato con un colpo sulla testa, dello stesso manico dell’arma stretta in pugno, il malfattore si dileguò tra i vicoli che già cominciavano ad essere avvolti dalle prime ombre della sera.

Ripresosi dal colpo, don Gaetano si sollevò e andò nel retrobottega, prese una brocca, versò un poco d’acqua in una bacinella di terracotta e si rinfrescò il viso e la parte della testa dov’era stato colpito; poco dopo spense il lume, chiuse la bottega e si avviò verso la propria abitazione.

Il costruttore di carretti era un uomo sulla quarantina, media altezza, longilineo, ma non secco, con carnagione scura, capelli folti e ricci, viso ovale, labbra carnose, naso leggermente incurvato e occhi grandi, luminosi. Entrò in casa, il tempo giusto per avvisare la moglie che quella sera sarebbe ritornato tardi, e poi proseguì verso la chiesa del Carmine, entrò, mise la mano nell’acquasantiera del millequattrocento, si segnò e si diresse verso l’altare maggiore, s’inginocchiò, pregò pochi minuti, quindi si rialzò e si avviò verso l’uscita. In chiesa vi erano delle persone che mormoravano il rosario e, tra queste, quattro uomini, distanti l’uno dagli altri, i quali indossavano un abito monacale simile al saio francescano. Don Gaetano non aveva ancora varcato la soglia per lasciare il luogo sacro che uno dopo l’altro, quelli che sembravano quattro monaci, si levarono ed uscirono anche loro dalla chiesa. Meno di due ore dopo, don Gaetano d’Alfino si trovò, assieme ai quattro ed altri quattro ancora, in una grotta la quale si poteva raggiungere dopo aver attraversato un lungo corridoio illuminato da alcune fiaccole accese che erano fissate alle pareti, ma il luogo era raggiungibile per altri corridoi che in quella occasione rimanevano inghiottite dal buio. Queste erano le catacombe del quartiere del capo, presso S. Agata la Guillara, un luogo descritto magistralmente dallo storico e romanziere Luigi Natoli che pubblicò diverse opere con lo pseudonimo William Galt. Lì era il covo dei “Beati Paoli” che, con la loro generosità, il loro tribunale segreto e i loro atti di giustizia raddrizzavano i torti subiti dal basso ceto sociale e dai non protetti dal potentato nobiliare, quindi “disturbavano” il modo infame di fare giustizia dei tribunali inquisitori. In quella grotta fu tenuta la riunione in cui, don Gaetano D’Alfino mise al corrente gli altri circa la rapina che aveva subito poche ore prima.

“Fratelli – disse – sugnu preoccupàtu, ma non tantu pi l’aggressiòni subìta o pa somma che mi è stata rubàta, quantu per il fatto chi u latru è u fìgghiu di Mattèu u brigànti. ’A cosa mi pari gravi e certamènte tutti sapèmu u picchì. Veramènti quando u me clienti si è accòrtu di quel picciòttu iù l’avìa già vistu e mi ero insospettìto, haiu pinsàtu che era lì per spiarmi e, naturalmènti, si stava spiàndo, putìva significàri chi forsi ero stato scoperto e qualcuno aveva messo il picciòttu alle mie calcagna pi cuntrullàrmi. Poi, quando u clienti andò via, notài chi u fìgghiu di buttàna era sparìtu, però ugualmènti non mi sintìa tranquìllu… Sapìti, sugnu cunvìntu che, anchi si è passatu tantu tempu, quella famiglia indegna e l’Inquisiziòni non si sono scurdàti di nuiàutri; soprattutto l’Inquisizione che si sente disturbata dal nostro operato”.

Allora quello che sembrava il capo prese la parola per dire:

“Mi pare che la preoccupazione di Gaetano è comprensibile; sicuramente nessuno di noi ha dimenticato chi era Matteo il brigante, e quale danno ha procurato alla nostra causa quando ha fatto cadere in quell’imboscata i nostri quattro fratelli che dopo il processo sono stati impiccati. Non dobbiamo sottovalutare il fatto che, essendo stato il brigante raggiunto dalla nostra giustizia, l’Ufficio dell’Inquisizione, subito dopo, ha pensato al sostentamento della sua famiglia e ad assumere il maggiore dei suoi figli, Concetto, che è stato incaricato a continuare l’attività spionistica del padre. Adesso c’è quest’altro che s’è fatto giovanotto e, come constatato, s’è dato alla rapina proprio come ha cominciato suo padre. A quanto pare il seme maligno continua a germogliare pericolosamente. Io direi d’estirparla mentri ch’è ora sta simenza. Secondo me, questo delinquente, sentendosi protetto dal fratello maggiore, chissà dove potrebbe arrivare… che ne dite?”

Ad uno ad uno tutti si pronunciarono per la soppressione del problema, e l’incarico fu dato a don Gaetano D’Alfino e ad altri due, Berto e Luigi, che dovevano guardargli le spalle.

In principio, la famiglia di Matteo il brigante, era composta da lui, dalla moglie Nunzia e da tre figli, di cui due maschi; la femmina, secondogenita, a quattordici anni andò a fare la serva presso una famiglia d’alta borghesia di Palermo. All’età di diciassette anni prese il volo, non si sa per dove, con tutta l’argenteria, i gioielli e tante altre cose di valore di cui si era appropriata nel palazzo dove lavorava; si disse che era fuggita con un soldato spagnolo rimpatriato, ma nulla di certo si seppe.

Pare che la moglie di Matteo, o meglio la convivente, fosse una cugina di primo grado orfana di entrambe i genitori dall’età di quindici anni. La ragazza rimasta sola non si era scoraggiata; resasi subito conto di avere un bel corpo si diete da fare e lo investi come un capitale che avrebbe dovuto darle l’agiatezza. Prese a frequentare militari e quant’altri ai quali poteva spillare del denaro, ma del suo capitale si accorse anche Matteo, di quindici anni più vecchio, il quale, furbescamente, pensò di entrare in società con lei offrendole in cambio la sua protezione. I due cominciarono così a vivere sotto lo stesso tetto e, quasi subito, a ritrovarsi nello stesso letto. Abitavano in una borgata periferica, ma per vendere la mercanzia di Nunzia erano costretti a spostarsi anche verso Termini Imprese. Matteo, che era troppo ingordo, spericolato e crudele, sperimentò di uccidere gli uomini che Nunzia adescava e di impadronirsi di tutti i valori che quelli portavano addosso. Una tarda sera uno degli avventori, sospettoso per sua natura, riuscì a salvarsi scappando in mutande. Matteo l’inseguì e gli sparò due colpi con la pistola e l’archibugio, ma quello, fortuitamente, riuscì a mettersi in salvo grazie alla protezione del buio. L’avventore era un uomo facoltoso, una persona che aveva oltrepassato la quarantina e, di solito, frequentava personalità altolocate presso le quali godeva molta credibilità. Qualche sera dopo, ad un suo amico d’infanzia, che nell’Ufficio dell’Inquisizione era una vera autorità, durante un ricevimento, confidò quanto gli era capitato. Il giorno appresso Matteo il brigante fu arrestato e condotto di fronte all’autorità dove la vittima confermò le sue accuse. Il brigante fu rinchiuso in una cella, ma Nunzia non si diede per vinta: si presentò presso l’inquisitore, proprio come convenuto con il suo uomo, e ostentando tutto il vittimismo e l’innocenza possibili, con grande disprezzo per la verità, diede una sua versione dei fatti: raccontò che quella sera, mentre si avviava verso casa, era stata seguita da un tale che poi l’aveva importunata; disse che, ad un certo punto, quello si era fatto minaccioso e aggressivo, quindi l’aveva seguita fino a casa e costretta a spogliarsi puntandole un coltello alla gola. Poi l’aggressore si era cominciato a spogliare a sua volta, ma all’improvviso era sopraggiunto Matteo, e quello fu costretto a scappare in mutande.

Chiaramente l’inquisitore non aveva creduto una sola parola del racconto di Nunzia, ma la ragazza si presentava interessante e piacevole. L’uomo aveva ascoltato in silenzio con lo sguardo puntato sulle carnose, ben disegnate labbra che producevano il suono di parole alle quali non dava alcuna importanza. Aveva le labbra come se fossero state fatte apposta per essere desiderate, in un viso splendido, ovale, con un nasino dritto, fiero, contornato da grandi occhi azzurri; il tutto incorniciato da una cascata di capelli ricci, colore nero corvino. Era proprio una rarità, creata per fare incantare gli uomini, e quell’uomo a cui ella stava innanzi appariva veramente stregato. Il suo sguardo sembrava scivolare sulle forme ben pronunciate del corpo di lei come acqua corrente. Le fece alcune domande, ma non per ascoltare le risposte a difesa di Matteo, bensì per sentire ancora quella voce dolcissima. Nunzia si rese conto di aver colpito il suo interlocutore, quindi le parve il momento giusto per la scena madre: cominciò a singhiozzare e, quasi immediatamente – chissà come fece – le spuntarono due grosse lacrime seguite a catinelle da altre e poi da altre ancora. Così, tra un singhiozzo e l’altro, disse:

“Signor ufficiàli, pirdunàtimi si stàiu a farvi pèrdiri tempu, ma Mattèu è l’ùnicu parenti chi hàiu o mundu… non c’è nessun’àutru chi bada a mmia. Libiràtulu, vi pregu: sugnu dispòsta a fàrivi… a fàrivi qualùnqui cosa… a fari tutt’a vita a serva pi vossignurìa… Signor ufficiàli… Iò sàcciu fari… sàcciu fari tutt’i cosi… Sàcciu cucinari, scupàri e puru cùciri e lavari i robbi… Libiràti a Mattèu, e vi fazzu qualùnqui cosa”.

A quel punto, l’inquisitore, cominciò ad avere qualche dubbio sulla colpevolezza di Matteo il brigante; si sentiva quasi confuso, però le disse:

“Ma tu lo sai che il tuo parente è stato denunziato, che l’aggredito ha testimoniato contro di lui, vero?”

“Quel porco lo ha denunziato perché si scantàva chi nuiàutri denunziavamo a lui – rispose, prontamente, Nunzia – ma Mattèu non fici nenti… mi difindìu e basta. C’avìa a fari? M’avìa a fari violentàri?”

Alla difesa di Nùnzia l’inquisitore obiettò:

“Ma veramente quell’uomo ha dichiarato che sei stata tu ad adescarlo, e che Matteo lo ha aggredito per derubarlo”.

Puntualmente la ragazza aumentò il suo singhiozzare e pianse come una bambina picchiata a sangue, intanto che diceva:

“Ma picchì, picchì i ricchi sunnu sempri cridùti, qualùnqui cosa dìciunu? Picchì, picchì, santu diu… picchì nuiàutri poviràzzi non semu mai cridùdi? Picchì dicu iù, picchì – e giù singhiozzi e lacrime – Ma vossignurìa chi cori avìti? Un cori di petra? Un cori di petra avìti? O diu, diu miu pinzàtici vui…”

La scenata intenerì l’inquisitore, però non rinunciò a pensare che di tutta la faccenda ne avrebbe potuto ricavare qualcosa, perciò promise che si sarebbe interessato e si fece lasciare l’indirizzo, con la scusa che al più presto possibile le avrebbe fatto recapitare delle notizie sul caso.

La sera successiva, al tramonto, Nunzia sentì bussare alla porta; non aspettava visite, quindi, sorpresa, intanto che faceva il pediluvio, rispose:

“Cu è?”

“ Sono il cavaliere Leopoldo Lo Visco, l’inquisitore”. Rispose la voce.

“Solo qualche istante e vengo ad aprire”. Disse la donna, e intanto si dava da fare per darsi un aspetto presentabile, quindi assunse un atteggiamento piuttosto dimesso, con gli occhi tristi e andò ad aprire l’uscio. Appena l’uomo le apparve di fronte restò ammutolita e sorpresa: il giorno prima lo aveva visto dietro la massiccia scrivania, al posto di lavoro e non aveva potuto apprezzarlo in tutta la sua statura; infatti le apparve più alto di quanto se lo era immaginato, ma anche più elegante e, di conseguenza, più interessante. Tutto sommato le fece una buona impressione e considerò che non doveva contare più di una quarantina d’anni.

L’uomo, rendendosi conto che l’aveva sorpresa, chiese:

“Che fai? Non mi vuoi fare entrare?”

“O si, certu, certu… Accomodatevi… Siete venuto pirsonalmènti; voli diri chi mi purtàti boni nutìzii… Non è così?”

“Questo veramente dipende da te - Rispose Lo Visco - ma anche da Matteo”. Intanto Nunzia gli offrì una sedia e accostandogliela, chiese, guardandolo con una dolcezza attraente:

“Cosa significa che dipende da me e da Matteo?” Prima di rispondere, l’inquisitore puntò lo sguardo negli occhi di lei, come se le sue pupille fossero due lame appuntite alle quali la donna non poteva sfuggire, quindi disse:

“Nunzia, io voglio essere di poche parole, e tu devi comprendere immediatamente: tu sai chi sono io e sai che posso fare molto per chi sa essere riconoscente nei miei confronti e nei confronti dell’ufficio che io rappresento”.

“Cosa significa” - Chiese lei.

“Significa che mi piacerebbe se tu fossi gentile e disponibile con me. Cerca di capire; la tua vita potrebbe cambiare come non hai mai sognato”. Tra lui e lei vi era la sedia sulla cui spalliera Nunzia teneva le mani appoggiate; Lo Visco le sfiorò, poi le prese tra le sue, le strinse e con delicatezza attirò a sé la donna. Lei fece una lieve resistenza e prese a singhiozzare intanto che le lacrime, come per magia, fecero la loro apparizione. Lui s’intenerì o così parve, portò le mani di lei alle labbra e le baciò, poi le lasciò, per accarezzarle il viso, quindi, con i pollici, cancellò quelle lacrime dalle guance e si chinò per baciarla sulle labbra. Nunzia non fece resistenza, ma non ritenne opportuno partecipare. Lui la strinse a se e, dopo essersi seduto, se la pose sulle ginocchia, la baciò sul collo e, nuovamente, sulla bocca, lei non singhiozzò più, però continuava ad apparire fredda, allora quello, con voce carezzevole, disse:

“Perché non ti sciogli? Dai, rilassati, partecipa e vedrai che sarà un momento meraviglioso; una ragazza come te non può rimanere fredda e impassibile”. Così dicendo cominciò a svestirla, intanto la baciava e l’accarezzava.

Nunzia gli afferrò le mani, lo bloccò e disse:

“Basta, non voglio, non voglio qui alla luce: mi virgògnu; andiamo di là, supra du lettu”.

“Hai ragione”. Rispose lui, quindi la sollevò sulle braccia e la portò nella stanza da letto.

All’alba del giorno dopo, la luce che entrava da una finestra trovò i due amanti a letto. Lei era già sveglia, lui fu destato dall’insistente canto di un gallo poco lontano al quale un altro, più distante, rispondeva.

“Cosa vulìti di mia l’ho capìtu – disse Nunzia – ma non m’avìti dittu ancora chi vulìti di Mattèu”. “Matteo sarà messo in libertà oggi stesso se accetterà di fare la spia per l’Ufficio dell’Inquisizione, e tu devi fare di tutto per fargli accettare l’incarico – la informò il cavaliere Leopoldo Lo Visco – in questa stessa mattinata l’andrai a trovare in prigione e gli parlerai”.

“Va bene – rispose lei – gli parlerò”.

Fu così che Matteo diventò spia dell’inquisizione, ma non cessò mai di essere un brigante assassino, sulle cui malefatte le autorità preposte chiudevano gli occhi con il massimo disprezzo per la giustizia.

Da tali genitori non potevano venire al mondo che figli come i loro, l’ultimo dei quali sembrava essere il più pericoloso, tale e quale a lui, ma una sera a tarda ora era atteso al varco da don Gaetano d’Alfino e dai suoi due compagni. Uno di quest’ultimi, Berto, stava nei pressi di una casa frequentata dal figlio di Matteo il brigante – pare fosse un luogo in cui allegre donnine smerciavano la loro più antica risorsa redditizia – e, quando vide uscire Vanni, fece un segnale convenuto a don Gaetano che stava appostato poco distante, ad un bivio dietro l’angolo. Quando quello che sembrava Vanni si trovò a tiro, don Gaetano mirò e fece fuoco, centrandolo in pieno petto, tanto che il giovane stramazzò al suolo immediatamente.

Si era appena dissolto l’eco del colpo di arma da fuoco quando Berto si vide quasi investito proprio da Vanni, il quale correva come inseguito dal diavolo. Berto credette che don Gaetano avesse sbagliato mira, quindi pensò di mettere riparo all’errore, infatti tirò fuori, fulmineamente la pistola dalla cintura e fece fuoco in direzione del fuggitivo che cadde al suolo come fulminato. Dopo, lo sparatore, si accostò al corpo disteso e costatandone la morte si avviò incontro a don Gaetano D’Alfino che destò meraviglia nel farsi sorprendere con il torso di un giovane inanimato appoggiato sul suo ginocchio, come se tentasse di soccorrerlo per rianimarlo, ma quello era ormai evidentemente deceduto. Don Gaetano sembrava disperato. Berto si fece più vicino ed intuì tutto il dramma del suo amico, ma non poté fare altro che sollecitarlo a fuggire via prima che sopraggiungesse qualche estraneo; quasi contemporaneamente si fece sentire il fischio alla pecoraia dell’altro compagno, Luigi, che avvisava dell’arrivo di nottambuli, così i tre “Beati Paoli” scapparono via lasciandosi i due morti alle spalle, uno dei quali, un povero innocente che nulla aveva a che fare con il figlio di Matteo il brigante: aveva avuto solo il torto di trovarsi a tiro di don Gaetano – il malcapitato era appena uscito da una casa diroccata dov’era andato per soddisfare un suo bisogno corporale – proprio un istante dopo il segnale di Berto. Il buio della notte era stato complice di quella morte per equivoco. Lo sparo di don Gaetano aveva messo in allarme il giovane brigante che, temendo per la sua vita, aveva cambiato direzione di percorso, ma il suo destino era ugualmente segnato quella notte.

Questo fu l’episodio che causò il trauma nella coscienza del costruttore di carretti, trauma che lo costrinse, da quel momento, ad odiare le armi e qualsiasi forma di violenza. Tale sentimento, in seguito, la figlia che sposerà il barone di Gurafi e di Noto, lo trasmise al proprio figlio Salvatore.

Il tempo passava e Francesco, l’altro figlio del barone di Gurafi cresceva. Egli era il suo orgoglio, lo osservava nella pratica dei giochi infantili e gioiva. Però il ricordo di Clara era sempre vivo, incancellabile. Pretese che Francesco imparasse a cavalcare, a sparare e a tirare di scherma: non voleva che suo figlio diventasse un uomo come lui; lo voleva intraprendente, coraggioso e capace di difendersi anche contro più avversari. E così fu. Francesco divenne un ottimo spadaccino; nessuno riusciva a batterlo, in quanto ad andare a cavallo sembrava un tutt’uno con l’animale, come un centauro. Partecipava alle battute di caccia e conosceva palmo a palmo i monti Peloritani e Nebrodi. Un giorno di maggio si spinse fino alla fonte Tirone, nei pressi di Montalbano, dove il barone di Tripi aveva dei possedimenti; proprio lì, Francesco e i suoi amici s’imbatterono in un gruppo di giovani amazzoni. I cavalieri smontarono dalle loro cavalcature. Intanto che gli animali si abbeveravano, i giovani parlottavano fra loro. Francesco se ne stava in disparte e, mentre accarezzava il cavallo, il suo sguardo veniva rapito dalla bellezza di una delle ragazze. Lei lo notò e si rese conto di non essere indifferente alle attenzioni del giovane. Gli sguardi s’incontravano studiandosi. Lui accennò un sorriso, e lei rispose con atteggiamento compiaciuto. Bastò un attimo, i due compresero che fra loro era nato un piacevole sentimento; un desiderio reciproco che pensarono potesse essere amore. Tutto fu chiaro per i due giovani, presso quella fonte sarebbe stato il luogo dei loro incontri, che diventarono sempre più frequenti. Lei era Angela, la figlia del barone di Tripi.

Francesco e suo padre erano rimasti soli ad abitare il palazzo baronale, dal momento che la baronessa Anna era deceduta nel darlo alla luce; erano attorniati da un numero ristretto di servitori e da pochi guardiani armati. Una sera, mentre stavano cenando, Francesco confidò al padre di frequentare la figlia del barone di Tripi, nello stesso istante l’anziano barone ebbe una reazione: improvvisamente scattò in piedi sbattendo due possenti pugni sul tavolo, come fosse impazzito, e gridò:

“No!… Questo non me lo dovevi fare.”

“Perché, padre? Quali gravi motivi v’inducono in tale atteggiamento?” Chiese il figlio.

“Quella fanciulla è la sorella di colui che causò la morte di Clara, più di dieci anni fa.”

Rispose il barone, tutto d’un fiato, ricordando al figlio quel lontano avvenimento. Alla fine del racconto, Francesco disse: “Capisco il vostro dolore e la vostra rabbia per non aver neppure ottenuto giustizia e, dovete credermi, anch’io non posso non essere addolorato pensando al momento in cui, ancora bambino, ho scoperto di aver perso mia sorella, ma dovete convincervi che Angela non centra niente in tutto questo; lei allora era appena una bambina, più di quanto lo fossi io.” “Lo so - rispose il vecchio barone - ma non sopporto di saperti imparentato con quell’assassino, come non sopporto l’idea di trovarmelo di fronte e fare finta di niente. E’ deciso: con quella fanciulla non puoi andare al di là di una semplice avventura amorosa. Non intendo più tornare su quest’argomento”. Francesco continuò a incontrarsi con Angela, ma non molto tempo dopo furono sorpresi dal fratello di lei, mentre si trovavano nella più assoluta intimità, in un pagliaio di pastori. Cesare era in compagnia di alcuni suoi spalleggiatori, e dopo aver ordinato di pestare Francesco uscì dal pagliaio trascinandosi via la sorella quasi nuda, la quale in lacrime ripeteva: “Non fargli fare male… Io amo Francesco.” Ma Cesare la trascinò via a strattoni. Verso il tramonto, Francesco fu trovato in condizioni disperate da un pecoraio; sembrava dovesse spirare da un momento all’altro; sanguinava da tutte le parti e, con il viso completamente tumefatto, era irriconoscibile. Il pecoraio fece di tutto per aiutarlo, cominciando col lavargli le ferite e dandogli da bere. Poi, in groppa ad un asino, lo condusse lontano da quel posto, gli lasciò qualcosa da mangiare e andò via. Il giorno dopo, quando il pastore si recò per controllare lo stato del suo protetto, ebbe la sorpresa di non trovarlo nella grotta dove l’aveva lasciato. Nessuno più sentì parlare di Francesco, neppure il suo vecchio genitore e la servitù che aveva ricevuto precise disposizioni di cercarlo dentro e fuori il territorio di Gurafi e Castroreale. Un pomeriggio di circa due mesi dopo la scomparsa di Francesco, Angela fu trovata priva di sensi davanti al palazzo del barone di Gurafi. La rinvenne Concetta, la moglie di Pietro, uno dei servitori del Barone; si prese cura di lei e la sfamò, quindi la ragazza si fece identificare, e pretese di essere condotta al cospetto dell’anziano barone; quando si trovò davanti a lui disse: “Sono Angela, la donna di vostro figlio. Francesco mi haraccontato tutto, quindi so quale rancore portate nei confronti della mia famiglia, e riconosco che avete ragione, ma ciò non vi deve impedire di accogliere con gioia la notizia che vi porto: in verità io aspetto un figlio che sarà vostro nipote.” “Chi ti ha condotto fin qui?” Chiese il barone. “Sono scappata via dal mio palazzo. Ho regalato alcuni miei gioielli ad un uomo perché accettasse di condurmi fin qui con il suo carro. So che mio padre e mio fratello sicuramente mi stanno cercando, ma io voglio rimanere fra queste mura; voglio che mio figlio nasca qui dove conoscerà suo padre, il quale ancora non sa del mio stato.” “Come sarebbe? Dunque mio figlio non era scappato via con te come io ho sempre creduto? Dov’è, allora, mio figlio? – Chiese allarmato il barone – Io non lo vedo da due mesi… Non gli sarà successo una disgrazia, spero…” “Due mesi? - Intervenne Angela - Ma allora voi non sapete cosa ci è successo?”

“Cosa dovrei sapere?” Chiese il barone. “Noi stavamo in un pagliaio di pastori, nel bosco di Montalbano, quando mio fratello, con alcuni suoi guardaspalle, ci sorprese. Cesare mi portò via ordinando ai suoi uomini di bastonare Francesco. Al palazzo ho sentito dire che lo avevano pestato a “dovere” ed io, il giorno dopo, di nascosto, ho lasciato il palazzo e mi sono recata nel pagliaio, ma non l’ho trovato. Alcuni giorni dopo sono tornata sul posto dove ho incontrato un pecoraio al quale ho chiesto se si fosse imbattuto in un giovane ferito, così ho saputo che Francesco era stato curato dallo stesso pastore e che da qualche giorno era sparito. Io ho creduto che fosse tornato qui, e che non volesse più vedermi per quello che mio fratello gli aveva fatto, ma vedo che voi non ne sapete niente”. “Proprio così - Confermò il barone - Non ne so niente, e questo non ci può certo tranquillizzare. Comunque tu, se vuoi, puoi rimanere: sarai trattata meglio che a casa di tuo padre.” Quando i familiari di Angela si resero conto della scomparsa della ragazza organizzarono immediatamente le ricerche in tutto il territorio, ma nessuno seppe dare alcuna notizia di lei. I servi e gli amici continuarono a cercare per tutta la notte con fiaccole e cani, in tutti gli angoli, gli anfratti rocciosi e nelle grotte, nei pagliai e nei boschi circostanti. Il giorno dopo e ancora dopo, furono setacciate tutte le contrade, anche quelle più distanti. Era sera inoltrata quando, in una casetta di campagna, un uomo di mezza età e la propria moglie con i quattro bambini stavano seduti a tavola intenti a consumare la cena. Sentendo bussare alla porta in maniera energica, l’uomo si levò dalla sedia e, andando verso l’uscio, chiese ad alta voce: “Cu iè?” “Sono il barone Merlo, aprite.” Appena aperta la porta, al padrone di casa apparvero cinque uomini, tre dei quali reggevano ciascuno una fiaccola che illuminava i loro volti. “Cerchiamo mia sorella che è sparita da quattro giorni – Disse Cesare, superbamente – Sono disposto a darti un premio in denaro se mi sai dare delle notizie”. “Ma io non conosco vostra sorella, non l’ho mai vista, non so com’è fatta, perciò non credo di potervi dare alcuna notizia.” Rispose il contadino. “Si tratta di una fanciulla alta, capelli lunghi, castani e ricciuti, viso ovale e occhi neri, con un vestito da cavallerizza – Spiegò Cesare Merlo ai due contadini – Se avete visto una fanciulla come lei dovete dirmelo.” “No – Rispose l’uomo – Se l’avessi vista me la ricorderei. No, non l’ho vista.” Dopo che il figlio del barone Merlo e i suoi accompagnatori si furono allontanati, il contadino si sentì rivolgere una domanda dalla moglie: “Perché hai detto di non aver visto la fanciulla che cercano? Non è quella che hai accompagnato nel territorio di Castroreale?” “Certo che si tratta di lei, ma non ho ritenuto giusto tradirla dopo che mi ha ricompensato con tutti quei gioielli. E poi… non te l’ho detto quello che mi ha confidato durante il viaggio?” Rispose l’uomo. “Sì, però a differenza dei gioielli, che non possiamo spendere, un poco di soldi liquidi avrebbero potuto farci comodo.” Commentò la moglie. “Lo so, però non mi è sembrato onesto tradire quella fanciulla.” Rispose l’uomo. Il giorno dopo, di buon’ora, di nascosto del marito, la contadina si recò al palazzo baronale e chiese di essere ricevuta. Proprio in quel momento Cesare, in compagnia di due guardaspalle, usciva, e riconoscendo nella donna la moglie del contadino che era andato a trovare la sera prima, la chiamò: "Ehi tu, avvicinati. Cosa sei venuta a fare qui?” “Signore, voi avete detto ieri sera, che siete disposto a ricompensare con del denaro chi vi da notizie di vostra sorella…” “Certamente – La interruppe Cesare – Ma tu come mai ieri sera non sapevi niente di mia sorella e stamattina sei venuta fin qui? Cosa sai? Parla e avrai la ricompensa.” “Vostra sorella si trova nel palazzo del Barone di Gurafi, nel territorio di Castroreale – Disse la donna, tutto d’un fiato – E ora datemi la ricompensa.” Cesare restò immobile per qualche istante, come fosse soprappensiero, quindi rivolto ad uno dei suoi servitori disse: “Accompagna questa donna da mio padre e farle dare dei soldi. Digli che ti mando io.” Quella stessa sera un pugno di uomini, con a capo Cesare Merlo, fecero irruzione nel palazzo del barone di Gurafi; la servitù cercò di fermarli, ma per tutta risposta Cesare afferrò uno per il bavero e lo costrinse a farsi accompagnare nell’appartamento del vecchio Salvatore. Quando, all’improvviso, vide entrare quel gruppo di estranei nella sua stanza, il barone, che si trovava seduto dietro una scrivania, scattò in piedi e disse:

“Chi siete? Cosa volete? Come vi siete permessi di entrare in questa casa?” Per tutta risposta, Cesare gli si avvicinò a grandi passi, lo afferrò per il colletto e disse: “Io voglio sapere dove tenete mia sorella, voi e vostro figlio. Chiamatelo, quel vigliacco e gli farò assaggiare la punta della mia spada.” In quell’istante Angela apparve nella stanza, si accostò al fratello e, tirandolo per la giacca, disse: “Sei tu il vigliacco, incapace di affrontare da solo un altro uomo. Tu sei soltanto buono ad aggredire un povero vecchio indifeso. E poi sappi che io qui ci sono arrivata da sola, non mi costringe nessuno a restare. Ed ora vattene. Io aspetto un figlio di Francesco ed intendo rimanere in questo palazzo.”

“Tu aspetti un figlio? Ma dov’è quel vigliacco?” Chiese inferocito Cesare. “Francesco non è al palazzo: nessuno sa dove sia; è sparito dal giorno che tu l’hai fatto massacrare di botte – rispose la ragazza, sprezzante – e adesso andatevene.” “E va bene, noi ce ne andiamo – rispose Cesare, trascinandola via – ma tu vieni con me.” A questo punto l’anziano barone, risentito, offeso nell’orgoglio, affrontò Cesare ed i suoi uomini, dicendo: “Lei rimane qui. Lasciatela e andatevene, delinquenti!” E così dicendo, mentre con una mano afferrava per un braccio Angela, con l’altra spingeva via Cesare, il quale gli diede un possente strattone e lo scagliò contro lo spigolo di un muro dove il barone andò a sbattere con la testa, rimanendo tramortito al suolo, con un’ampia ferita sulla fronte. Angela cominciò a gridare, tanto che accorsero alcuni dipendenti, ma constatando la morte del loro padrone…

- Ecco, proprio a questo punto, parte di quella pagina termina in un nero orlo consunto dalle fiamme. Nel breve intervallo che lo separa dall’ultima riga letta e la prossima d’andare a cercare oltre le pagine illeggibili, un ricordo riaffiora alla mente del pittore Andrea Marzio, un ricordo che lo proietta lontano nel passato dove si svolge una simile scena di prepotenza nei confronti di un uomo indifeso, cioè suo padre: egli si rivede bambino di circa dodici anni; è una sera invernale quando rivede suo padre preoccupato. Il signor Marzio è assieme a tre uomini, due dei quali gli puntano addosso i loro fucili a canne mozze mentre il terzo lo spintona. La scena si svolge di fronte l’ingresso esterno del caseificio di proprietà della sua famiglia. Andrea se ne sta in un vecchio furgone parcheggiato di fronte su cui era andato a giocare prima che arrivassero i tre estranei; dalla sua postazione, stando in silenzio e impaurito vede e sente tutto senza essere notato dagli estranei. “Andate via, non sono cose che vi riguardano – dice suo padre ai tre – Nessuno può accampare diritti su mia figlia se lei non è d’accordo”. “Dunque il figlio di don Gaspare Antaris sarebbe nessuno? – dice quello sen’armi – Ma che ti sei messo in testa? Ma lo volete capire, tu e la tua famiglia, che dovete sentirvi onorati se Giosuè Antaris vuole tua figlia per moglie?” “Si dà il caso che Giosuè a mia figlia non piaccia, e anche se l’ha rapita e violentata, lei ha preferito scappare da lui, denunciarlo e fare ritorno a casa anziché accettare di sposarlo, ed io rispetto la sua volontà – ribatte il padre di Andrea – e adesso andate via tanto non riuscirete ad intimorirmi anche se siete venuti armati”. A questo punto, l’uomo senza armi dà un’altra spinta al padre di Andrea, intanto che gli dice: “Evidentemente tu non hai capito chi comanda. Questo ti servirà a farti schiarire le idee e convincerti che quello che vuole la famiglia Antaris è legge. Il signor Marzio, a causa dello spintone, perde l’equilibrio e nel cadere all’indietro, sbatte con l’occipite sullo spigolo di un gradino. L’impatto gli causa una frattura mortale. A questo punto i tre prepotenti coscienti del danno irreparabile si allontanano da quel posto mentre uno di loro dice: “Fortuna che questo posto la sera è un deserto. Andiamo via prima che arrivi qualcuno.

- Andrea Marzio si scuote come avesse un brivido di freddo intanto che prova a riprendere a leggere alcune pagine successive a quelle andate completamente distrutte dal fuoco.

…ed arrivò il 25 novembre del 1769, quando una forte scossa di terremoto danneggiò irrimediabilmente il monastero dei Padri Basiliani di Gala, nel territorio di Castroreale. In una stanza vi era un giovane il quale venne colpito di striscio alla testa da un fiasco caduto da uno scaffale. Fu allora, dopo essersi ripreso dal colpo, che il giovane uscì all’aperto e, come stupito, più che spaventato per il terremoto, si cominciò a guardare attorno e, a uno dei monaci che cercavano di mettersi in salvo, chiese: “Dove siamo? Che posto è questo?” Il frate, per tutta risposta, gli disse: “Ma ti sembra questo il momento di fare domande? Cerca di correre: qui sta crollando tutto.” Il giovane corse seguendo il frate nonché l’istinto di conservazione. Appena distanti dal pericolo i due si fermarono per prendere fiato e furono raggiunti da altri frati e dallo stesso priore. Fu proprio costui ad accorgersi che il giovane perdeva sangue dalla ferita alla testa, dov’era stato colpito dal fiasco, e constatò: “Ma tu sei ferito, figliolo… Da cosa sei stato colpito?” “Da un fiasco – Rispose, quindi chiese – Ma dove siamo? Cosa sono venuto a fare qui?” “Come? Cosa sei venuto a fare qui? Ma è quello che ti stiamo chiedendo da alcuni mesi, e tu non ci hai saputo dire neppure chi sei…” Rispose il Monaco. “Ma io lo so chi sono.” Dichiarò il giovane.“E chi sei? Perché non lo dici pure a noi?” Chiese il priore basiliano. “Io sono Francesco, figlio del barone di Gurafi e di Noto, e ricordo soltanto si essere stato massacrato di botte, fino a perdere la coscienza, da un gruppo di malviventi nel territorio di Montalbano.” “Povero Figliolo – Continuò il Priore – Ecco perché eri così svanito, stanco, affamato e… chissà quanto hai vagato privo di memoria…Comunque adesso, forse grazie alla botta, che hai preso sulla testa e, prima di tutto, alla volontà di Dio, ti è tornata la memoria, quindi puoi tornare a casa tua. Chissà quanto saranno preoccupati i tuoi…” Francesco era diventato irriconoscibile: aveva la barba lunga e, più lunghi, i capelli, ed era vestito fino alla cinta con quello che doveva essere per forza un mezzo saio monacale, su un consunto paio di brache. Con la promessa di ricompensare i monaci per quanto avevano fatto per lui, dopo essersi procurato un cavallo, salutò i frati e si diresse alla volta di casa sua dove trovò la sgradita…

- La pagina incenerita costringe il pittore ad andare oltre.

…quella fredda notte di natale del 1769. Un uomo incappucciato si aggirava come un’ombra intorno al palazzo del barone Merlo, si diresse verso il fienile, proprio accanto alle stalle e diede fuoco tutt’intorno, poi si allontanò per dirigersi verso l’ala abitata del grande edificio, ma due guardiani lo notarono, quindi sguainarono le spade e lo affrontarono. Nonostante l’impari duello, l’uomo incappucciato sembrava una furia impossibile da fermare, infatti, due armati, in pochi istanti, furono trafitti uno dopo l’altro. Poco dopo l’ombra si allontanava mentre un venticello alimentava le fiamme che innalzandosi fino ai piani alti divoravano il fienile e le stalle baronali. Le fiamme, vincendo le tenebre notturne, illuminavano i dintorni quando, all’improvviso, disperate urla umane ruppero il silenzio; alle urla si unirono i nitriti dei cavalli, il latrare dei cani e il muggito dei vitelli in un caos generale. L’ombra che aveva dato fuoco comparve da un’altra parte, s’introdusse nel palazzo e scivolando lungo le pareti giunse fino alla stanza di Angela, aprì la porta, sicuro di non sbagliare, e si trovò di fronte alla ragazza. Ella stava affacciata alla finestra, ma, sentito l’uscio aprirsi, si girò intanto che l’uomo si toglieva il cappuccio che gli copriva il volto. Allora, senza esitare, ella gli si gettò fra le braccia chiamandolo per nome: “Francesco! Tu non puoi che essere Francesco, l’amore mio: non posso sbagliarmi.” “Non ti sbagli affatto, sono io, amore.” Rispose Francesco. Così dicendo la strinse a se e cercò di sollevarla dal pavimento, ma lei ostentando una delicata resistenza disse: “Fai piano; potresti fare male a nostro figlio: non ti sei reso conto del mio stato?” Sicuramente sarebbero rimasti in quella posizione per ore, ma subito dopo pochi istanti di effusioni amorose si sentì una voce concitata, proveniente dal corridoio, chiamare la fanciulla: “Angela… Angela… Svegliati, Angela… Sta andando tutto in fiamme… Vieni a dare una mano alla servitù.” “E’ la voce di mio fratello.” Disse la ragazza, staccandosi dall’abbraccio di Francesco. “L’ho sentito. Adesso resta in silenzio e fai finta di dormire; a lui ci penso io.” E così, mentre lei s’infilava sotto le coperte lui si sistemò con le spalle appiattite contro il muro, dietro la porta. Cesare si fermò sull’uscio e continuò a chiamare la sorella con autorità. Facendo finta di svegliarsi, lei chiese: “Che succede?” Ma Cesare non ebbe il tempo di rispondere alla domanda di Angela; proprio in quel momento, Francesco spinse la porta con tutte le sue forze, e Cesare si trovò investito in pieno volto tanto che cadde sul pavimento privo di sensi. Angela rimase ammutolita sul letto, osservò Francesco sguainare la spada e brandirla sul corpo di Cesare. Allora, istintivamente, in un grido soffocato la donna disse: “No!… Non farlo… E’ pur sempre mio fratello!” “Hai ragione. Stavo commettendo una pazzia. E poi non vale a niente sporcarsi le mani con il sangue di un vigliacco – Rispose Francesco – Adesso vestiti; andiamo via di qui.” Era il giorno dell’Epifania dell’anno 1770, Francesco e Angela si recarono in chiesa. Tutti, gli amici ed i conoscenti salutavano il giovane, felici di constatare che era ritornato sano e salvo. La voce circolava rapidamente, e giunse fino agli sgherri di Cesare Merlo che andarono subito a riferire al loro padrone. Gli ordini furono perentori: eliminare Francesco e condurre Angela al palazzo. Ma Francesco non era uno sprovveduto, come ebbe modo di dimostrare al suo nemico. Assoldata una squadra di armigeri, i quali si erano arruolati non tanto per la paga quanto per la stima che nutrivano per il barone, furono loro a vigilare intorno al palazzo, e ad avvistare i primi movimenti degli uomini dei Merlo, i quali furono cacciati via e fatti inseguire da un branco di cani fedelissimi, così come i loro padroni. Ma Cesare non si dava pace e, non molto tempo dopo, alla guida dei suoi armigeri, si appostò poco distante del palazzo di Francesco e, all’imbrunire, ordinò di circondarlo e disseminare tutto intorno grossi bocconi avvelenati. Quindi gli aggressori si fecero avvistare dai guardiani di Francesco i quali sguinzagliarono i loro cani che però non fecero più ritorno; prima si sentì il loro guaire, poi il silenzio; quindi i nemici tornarono in forze decisi ad affrontare e sopraffare gli uomini del barone di Gurafi. Lo stesso Francesco uscì dal palazzo, armato di tutto punto, e ordinò ai suoi di appostarsi fra le rocce ed i cespugli intorno, rimanere immobili, e colpire i nemici appena questi si fossero portati in prossimità. Agevolati dal fatto che gli uomini di Francesco conoscevano a perfezione ogni palmo di terreno, gli avversari non ebbero alcuna speranza di avere il sopravvento: ad intervalli irregolari s’innalzavano grida di dolore nel buio della notte, ed il tonfo di quelli che stramazzavano al suolo, ciò fino alle prime luci dell’alba, quando i superstiti potevano essere visti allontanare di corsa nella direzione in cui avevano lasciato i cavalli. Ma era stata tutta una strategia improvvisata all’ultimo momento da Cesare, il quale era rimasto in compagnia di cinque dei suoi uomini più capaci con l’intento di addentrarsi nel palazzo di Francesco ad ogni costo. Tutto intorno sembrava tranquillo, ma in verità Cesare e i suoi si erano introdotti in un casolare dove trovarono di che travestirsi da contadini, quindi, chi con zappa in spalla e chi con cesti, s’inoltrarono verso il palazzo baronale dalla parte delle stalle dove stava di guardia un solo uomo, il quale, preso di sorpresa, fu pugnalato. Da qui gli aggressori si portarono sul tetto, e si arrampicarono verso una finestra, oltrepassata la quale si trovarono in un corridoio. I cinque uomini percorsero tutto quel corridoio sul quale vi erano le porte di diverse stanze, tutte socchiuse, attraverso cui si poteva vedere che non c’era anima viva; però, nella penultima riposavano Francesco e Angela, mentre nella precedente e nell’ultima vi erano, in ciascuna, tre uomini che dovevano sorvegliare il corridoio. Ormai, vista l’alba inoltrata, e constatato che tutto intorno era tranquillo, i sorveglianti si erano distratti un poco, però non furono presi di sorpresa; avvertirono in tempo la presenza degli intrusi e li affrontarono: il corridoio, improvvisamente, divenne un campo di battaglia dove rimbombarono esplosioni di pistolettate, il fragore metallico delle sciabole e le urla degli uomini che si lanciavano insulti. Fin dal primo schiamazzo, Francesco, saltò dal letto, impugnò la pistola e la sciabola e si proiettò al di là dell’uscio dove si trovò faccia a faccia con Cesare che gli puntava addosso la pistola per fare fuoco; si lanciò per terra, sparando a sua volta, ed evitando il proiettile dell’avversario; il suo colpo ferì l’aggressore che pensò bene di fuggire per evitare il peggio. Francesco fece per inseguirlo, ma sentì la voce di Angela: “Francesco… Francesco… Francesco, aiutami!…” Francesco si girò e vide Angela seduta sul letto con le mani sul petto dove una estesa macchia tingeva di rosso il bianco della camicia da notte. Capì immediatamente che la pallottola sparata da Cesare, e da lui schivata, era andata a colpire Angela. Il tempo di andarla a soccorrere e vide la giovane accasciarsi da una parte, fra il cuscino e le coperte. Il colpo era stato mortale e Francesco non poté che constatare il decesso della sua donna. In quello stesso momento un urlo disumano gli uscì dalla gola. Abbracciò il cadavere di Angela, per un lungo istante, quindi, come impazzito dal dolore, stringendo le armi in pugno, intanto che i suoi uomini stavano per avere la meglio sugli assalitori, si lanciò all’inseguimento di Cesare. Saltò dalla finestra sul tetto sottostante, da dove poté vedere la sagoma di Cesare poco distante, poi ancora un salto, giù, e riprese a rincorrere l’assassino che, essendo ferito ad una gamba, non poteva che andare a rilento. Finalmente lo raggiunse, quello tentò di difendersi con la sciabola, ma, spinto dall’irruenza di Francesco, inciampò e cadde all’indietro lasciandosi sfuggire l’arma. Francesco infierì prendendolo a calci, poi lo afferrò per i folti capelli e se lo trascinò dietro. Non gli rivolse alcuna parola, per tutto il tragitto, fino al palazzo dove entrò e continuò a trascinarlo su per le scale. Era evidente che Cesare soffriva, per la ferita e per le contusioni riportate a causa dei calcioni che aveva preso, ma Francesco continuava a trascinarlo. Poi alcuni suoi uomini gli andarono incontro e, pur non comprendendo le sue intenzioni, lo aiutarono a trascinare l’assassino fino al piano di sopra, nella stanza da letto dove giaceva Angela. Appena giunti sulla porta, Francesco, ripreso per i capelli Cesare, disse: “Alza la testa, gaglioffo; apri bene gli occhi e guarda l’ultimo tuo delitto.” Cesare guardò e, comprendendo, si portò le mani al volto, poi, disperato e impaurito, disse: “No, non è possibile; non posso essere stato io…” “Si – Rispose Francesco – sei stato proprio tu; e pensare che, l’ultima volta che ti ho incontrato, lei ti ha salvato la vita, ma certo tu questo non potevi saperlo. Non avrei dovuto darle retta; maledetto, avrei dovuto ucciderti quella notte in cui me la sono portata via; adesso non saremmo qui. Inginòcchiati, bestia feroce, e prega affinché Dio ti perdoni, prega, assassino, anche se meriteresti l’inferno; maledetto per colpa tua anch’io sarò un assassino.” A quelle parole Cesare capì che stava per essere giustiziato, quindi, tutto tremante, s’inginocchiò, singhiozzando e si fece il segno della croce. Subito dopo, Francesco, con un colpo netto, gli recise la gola, con la lama della sciabola, dicendo: “Per mia sorella, per mio padre, per Angela, e perché tu cessi di fare del male.” Cesare si accasciò nel suo sangue. Francesco, lasciandosi sfuggire l’arma dalla mano, andò a sedersi sul letto dove giaceva Angela; le accarezzò il viso per un tempo che sembrò infinito, mentre si sentiva morire dentro, poi…

- La frase rimane incompleta, però appresso, in un frammento di pagina si può leggere. …circa cinque anni dopo, Francesco sposò una nobile ragazza di origine maltese dalla quale ebbe quattro figli maschi, due dei quali, ereditati i beni materni, si trasferirono in quell’isola col titolo di… - Il pittore Andrea Marzio rimane lì a lungo, senza voglia di muoversi e, riflettendo su quanto sta leggendo in spezzoni di pagine, capisce che le opere pittoriche che gli sono state commissionate non dovrebbero essere altro che le illustrazioni di quel volume ormai rovinato dal fuoco, per colpa della sua incuria. Intanto che gira ciò che rimane della pagina annerita dal fuoco, per continuare nella lettura, un altro flash dei suoi ricordi lo distrae: rivede il fratello Marco che gli dice: “Scappa, scappa… vattene via… nasconditi nella vecchia casa accanto. Non fatti vedere: scappa, vattene via! Mettiti in salvo, almeno tu!” Egli, preoccupato per l’espressione disperata del fratello, è impaurito come chi sente il pericolo, ma non sa da che parte stia arrivando, esegue l’ordine che si vede impartito, quindi esce di casa, si nasconde dietro un muro diroccato e si sforza di guardare in casa per capire e sapere cosa stia succedendo. È una tarda sera di febbraio, la sua casa è riscaldata da un grande camino e illuminata a giorno: lui è al buio, quasi trema per il freddo, ma non lascerà la sua postazione: dall’ampia finestra a vetri riesce a vedere benissimo in casa dove sono entrati tre uomini. Nota che parlano con suo fratello maggiore con atteggiamento minaccioso; il giovane indica la porta ai tre estranei e cerca di spingerli fuori, ma uno di quest’ultimi estrae la pistola. Il bambino non trema più soltanto per il freddo, ma perché teme il peggio. Vede suo fratello, fulmineo, sparire attraverso la porta dalla quale si accede nella camera accanto. Anche le mani degli altri intrusi appaiono armati e aprono il fuoco, attraverso il vano della porta, in direzione della stanza dov’è sparito Marco. Il bambino comincia a singhiozzare, piange e le lacrime gli appannano la vista, quindi si strofina gli occhi e cosi può vedere suo fratello che, spuntato alle spalle dei tre uomini, comincia a sparare. Gli aggressori cadono, ma uno di loro, prima di morire, riesce a colpire suo fratello. Andrea lascia la sua postazione e corre in casa. Poco dopo giungono due donne, la madre e la sorella. Lo trovano singhiozzante che tenta di soccorrere il proprio fratello. Le donne sono atterrite nel vedere quei tre uomini morti; disperate cominciano ad occuparsi del proprio congiunto che sembra in fin di vita, intanto che ascoltano Andrea che dice: “Li ha uccisi Marco… Sono stati loro che hanno ucciso papà”. Le donne si danno da fare: tolgono gl’indumenti al ferito, lo lavano, gli disinfettano la ferita all’emitorace destro, lo fasciano e, faticando non poco, lo trasferiscono in un’autovettura, sulla quale montano tutti, alla cui guida si pone la ragazza. Si lasciano alle spalle la solitaria casa circondata da un grande giardino per avviarsi lungo quella strada che li condurrà al convento dei frati Francescani che si trova ad una ventina di Km di distanza. Il fratello di Andrea è destinato a non morrireper cause violente in quell’occasione e neppure in seguito: sarà colto da un cancro maligno quasi due anni dopo i fatti per i quali è assolto poiché ha agito per legittima difesa. In quel convento, protetto dai monaci, cresce e diventa pittore Andrea Marzio e né esce da maggiorenne per andare a fare il soldato in continente da dove ritorna trasformato tanto che nessuno lo potrebbe riconoscere. A quel punto un moscone fastidioso che gli gira attorno fa sfumare i ricordi del pittore, quindi, egli decide di andare avanti nella lettura di quel testo che di tanto in tanto lo lascia con l’anima in sospeso e lo obbliga a proseguire alla successiva pagina leggibile.

***

25 gennaio 1990


Una nobile casta


…casta nobile di un casato baronale; residuo di una nobiltà decaduta. Io, erede di una povertà assoluta, oltre l’avvenire incerto possedevo soltanto la forza di volontà, un minimo bagaglio culturale e la voglia infinita di sapere, di conoscere per arricchire la mia anima e dare un senso a questa esistenza. Ma avevo anche il forte desiderio di proiettare nel futuro un me stesso con più virtù che difetti. Forse per questo motivo vedevo davanti a me una strada molto difficile, pietrosa e tutta in salita. La mia vita dipendeva solamente da me. Non contavo sull’aiuto di nessuno e, dopo, da sposato, non potevo avere nemmeno il conforto di mia moglie, anzi, il mio maggior problema era proprio lei. Non mi ha dato che dispiaceri: per un certo periodo è stata causa di un grave stato di depressione e di ansia, tanto da portarmi sulla soglia dell’annientamento delle mie aspirazioni. Poi qualcosa è cambiata. Il tunnel non era più tanto nero. Il cielo non era del tutto sereno, ma la tempesta della mia anima era già passata. Ormai era chiaro: lei era affetta dalla sindrome che io ho definito di Antonietta Portulano ovvero la moglie di Luigi Pirandello; la stessa patologia, un male psichico inguaribile se non è curato, ma purtroppo lei rifiutava qualsiasi cura. Non sembrava, ma era pericolosa. Per di più il suo spessore d’ignoranza, il suo carattere possessivo-aggressivo, l’eccessiva gelosia cronica, l’ingordigia e l’avarizia la rendevano di una, certamente inconscia, cattiveria esasperante, nutrita da un’insaziabile invidia e dall’ingiustificata arroganza che in una persona egocentrica ed egoista diventano una carica esplosiva a tempo incontrollato. Questo essere, che malignamente ha mascherato i suoi difetti, le sue patologie fino alla nascita di nostro figlio, purtroppo, era mia moglie che non sentivo più come tale, ma solo come un essere che mi suscitava tanta pietà e comprensione. Eppure ero stato felice… poi, disumanamente sposato, ho dimenticato quella che era la felicità. Definirei la mia situazione come “maledizione pirandelliana”, dal momento che il maestro di Girgenti visse il mio stesso dramma. Come lui mi sentivo perseguitato dalla gelosia morbosa di lei, ero mal sopportato e, in verità, anch’io la mal sopportavo. Vivevo uno strano rapporto; mi sentivo il cuore scoppiare; vedevo l’anima mia che si sdoppiava: mi sembrava che scorresse fra sassi e massi, tormentata e tormentosa, che precipitasse, come acqua tumultuosa di un grosso torrente, che avrebbe trovato quiete nell’immenso mare. Un desiderio, a volte, un desiderio certamente amaro: che si aprisse, un giorno, il ventre della terra lungo tutto il greto del torrente, e risucchiata, assorbita, interamente l’acqua non gorgogliasse più. Ciononostante continuavo il travagliato percorso. Sentivo il dovere di resistere e vivere, quindi espletare i compiti impellenti di ogni giorno, il compito, in primo luogo, di raccogliere l’ottimismo superstite e lanciarlo, con forza, al di là di un’invisibile barricata, un ostacolo sempre più alto, e sperare di poterlo raccogliere il giorno dopo per tentare di riuscire a lanciarlo in una futura, positiva prospettiva. Ma spesso ero assalito dal timore che tale barricata potesse diventare invalicabile, che dovessi essere costretto sulla via del deterioramento della mia psiche nel continuare ad inciampare fra gli egoismi di lei, i suoi umori, le sue imprecazioni, i suoi insulti, la sua invidia e il disprezzo per tutto e tutti. E cosa non facevo per spianare il percorso, per eliminare gli ostacoli?… Tutto per amore della vita, del quieto vivere e per riacquistare, giorno per giorno, la fiducia nel futuro. Ma passavano i giorni irrequieti, mesi invivìbili, anni nella testarda convinzione che i giorni più belli sicuramente sarebbero arrivati. Con tale inutile speranza ho percorso la via che ha portato l’anima mia a biforcarsi sempre più fra la realtà e il sogno. E così, spinto dalla forza del desiderio di vivere, mi sono inventato una pace impossibile, mi sono creato uno status di normalità, anche, e soprattutto, per amore di mio figlio ancora di pochi anni. M’immaginavo lei dai canoni diversi, assennati, un recipiente capace di recepire tutto il mio l’amore, amore che non potrebbe essere mai sprecato, poiché è un sentimento onesto, nobile che viene dall’anima. Io, sperduto elemento travolto, sospinto dalla corrente del corso vitale, uscendo dal delta, mi immaginavo finalmente felice, accolto da un abbraccio umano in cui giacere sereno, sprofondare nella sensazione del magico amplesso dei sensi che rende sublime la vita. Ma c’è da vergognarsi di un desiderio umano, mai più del tutto realizzato, pur essendo stato accusato di tradimento, continuamente? Ho avuto sgomento: non ho mai avuto una amante. Sempre fedele, costantemente, come un deficiente, incapace di realizzare un attimo di estasi in un continuo tormento. Questa era la vita che m’impediva di vivere la realtà: ho preferito sognare la normalità con un tuffo nel mito più lontano, quel mito che ha avuto il potere di curare la mia depressione. Quel mito che…

- E qui il fuoco interrompe la frase, quindi ad Andrea Marzio tocca riprendere oltre.

…e capisco perché mi sorprendevo malinconico. Come potevo non accorgermi che mi mancava l’attenzione di un vero amore? Avrei voluto una compagna che mi amasse, che mi attendesse, che mi desiderasse e mi cercasse, che apprezzasse il mio operato e mi comprendesse, che accettasse tutto l’amore che la mia anima sentiva come sente il bisogno di dare. Insoddisfazione, tormento, notti insonni e un’unica quiete dell’anima: mio figlio, il mio presente e la speranza di una futura certezza. Cosi come ho trovato l’unico riferimento, in mio padre, quell’esempio di umana bontà a cui quand’era vivo confesso di non aver dato molto ascolto e pertanto sento nel cuore un angoscioso pentimento inguaribile. Non vivo più le ristrettezze dei tempi andati, ma, più che altro, oggi ho continuamente presente la ricchezza di quelle sue parole da trasmettere ai tanti giovani e, in particolare, a mio figlio il quale, spero, voglia ascoltarmi più di quanto io abbia ascoltato il mio genitore. Sono convinto che…

- E dopo la cenere del seguito ancora righe di un’altra pagina.

Spesso mi sorprendevo a dialogare con me stesso, quanto al sonno: era un fatto marginale, i veri sogni erano incubi e i ricordi l’occasionale compagnia. E ricordavo, come ricordo, mio padre, quell’umiltà, quella generosità, quell’umanità: virtù personificate in un unico essere che a pensarci bene doveva discendere da sapiente saggezza. Accennava, dietro mia richiesta, a lontani antenati di nobile casta, appena quanto poteva bastare, e poi tendeva a sfumare. Sì, mai un vanto, un eccesso, ma il nobile orgoglio, inaspettatamente, affiorava in lui e pretendeva rispetto dai casuali maleducati avventori, che si arrogavano il diritto di essere i migliori, non sapendo di essersi, da se, catalogati fra gli ignoranti presuntosi, affaristi, magari gonfi di spicciolame valuta cartacea. La ricordo bene l’ultima sua punta d’orgoglio: era di domenica: il 24 gennaio del 1988, eravamo seduti alla stessa tavola, a pranzo e, ad un certo punto, si lasciò sfuggire: “Ora che ho un erede che porta il mio stesso nome potrei anche morire… Sono soddisfatto perché so per certo che voi, figli miei, avete dato risposte importanti e dimostrazioni del vostro valore, prima di tutto a voi stessi, ma anche a chi credeva di poterci mettere i piedi addosso, ed ancora tante ne saprete dare, senza mai mettere da parte l’umiltà.” Il giorno dopo, sul primo pomeriggio, in un momento di allegria, all’improvviso, spirò lasciandomi un grande dolore che finirà soltanto il giorno in cui anch’io non sarò più. Sono passati due anni da quel giorno, ma sento sempre vivo il dolore ed anche l’inguaribile rimorso di aver sempre rinviato il momento in cui avrei voluto fargli tante domande e rivolgergli i miei tanti perché. Se ne andato senza permettermi di conoscerlo bene come avrei voluto. Ma qualcuno sapeva, un uomo alla cui fonte potevo attingere per soddisfare la mia sete di conoscenza anche se, ovviamente, non poteva essere una grande consolazione. Ora, purtroppo, anche quell’uomo, lo storico, uno dei più cari amici di mio padre non è più: anche lui se n’è andato, ma mi ha lasciato quasi del tutto dissetato. Mi piace, adesso, intraprendere a raccontare chi era costui, perciò voglio cominciare col dire… - La pagina interrotta costringe il lettore ad andare oltre. …disponibilissimo, lo storico. Mi raccontò di aver fatto delle ricerche e d’aver trovato delle carte ed un chiarificatore attestato da cui si evince che questa mia famiglia abbia avuto a capostipite un Corrado che, si dice, sia stato capo della guardia di re Pietro III d’Aragona e I di Sicilia. Pare che il sovrano sbarcato a Trapani il 30 agosto del 1280 con più di 600 armigeri e circa 8000 almugaveri ovvero fanti, dopo aver sconfitto gli angioini, si sia diretto a Palermo per prendere possesso del regno di Sicilia che era stato del nonno Federico Secondo di Svevia. Gli angioini sapevano dell’arrivo dell’aragonese e quale ostacolo egli rappresentasse per loro, assassini di Corradino di Svevia, quindi provvidero ad infiltrare qualche prezzolato tra coloro che avrebbero dovuto preparare l’accoglienza al nuovo re. L’aragonese rimase sulla nave finché le truppe di Carlo D’Angiò non furono sconfitti. Subito dopo, gli addetti preparavano il palco nella grande piazza nei pressi del porto per la cerimonia del saluto della città al sovrano. Era un caldo pomeriggio, ma tutto procedeva tranquillamente: Pietro I di Sicilia poteva sbarcare. Sulla piazza vi era una folla enorme di isolani curiosi di vedere il loro re in persona; un giorno avrebbero potuto raccontarlo ai propri figli e nipoti e farsene un vanto con gli amici e conoscenti che non avevano potuto avere tale opportunità. Gli organizzatori della regale cerimonia ancora manovravano per gli ultimi addobbi e ritocchi attorno a quello che sembrava un vero palcoscenico. Ad un certo punto si sentirono le trombe squillare, segno che il corteo stava per giungere. Gli ultimi del codazzo erano ancora sulla passerella della nave quando il re si accingeva a smontare dalla carrozza. Aveva messo il piede sinistro sul primo gradino della scaletta del palco quando uno degli uomini addetti alla sistemazione del drappeggio attorno allo stesso palco, che stava genuflesso a testa china rivolto verso il sovrano, scattò in piedi all’improvviso e, brandendo un lungo pugnale, si lanciò contro il re, ma prontamente un semplice armigero si catapultò addosso all’attentatore. I due rovinarono al suolo intanto che altri intervennero, bloccarono il colpevole e lo trassero in arresto. Tutto si svolse in un attimo, tanto che molti in coda al corteo reale non si accorsero di quanto era successo. Comunque gli armigeri formarono due ali a protezione del re e la manifestazione si svolse regolarmente, senza altre sgradevoli sorprese. Però, prima di salire sul palco, Pietro D’Aragona sostò un attimo, fece un cenno al suo salvatore e, appena quello gli fu vicino, volle sapere il suo nome e poi ordinò: "Quando saremo a Palermo presentati al mio cospetto”. “Come vostra maestà desidera”. Rispose l’armigero inchinandosi. Alcuni giorni dopo, nel salone del palazzo reale di Palermo, vi era la guardia schierata su due ali tra cui passò il sovrano che andò a sedersi sul trono. Poi fece un nome e un cenno con la mano, dicendo: “Vieni avanti”. Dall’ultima fila l’armigero che gli aveva salvato la vita fece un inchino rivolto al re e si avviò verso il trono. Fu proprio in quella occasione che Pietro D’Aragona nominò quel tale, che aveva nome Corrado, capo della guardia reale e gli attribuì un titolo nobiliare che accrebbe nel tempo. Questa famiglia “Godette nobiltà in Messina, Noto e Palermo”. In seguito, un ramo della stessa, andò a stabilirsi in Malta col titolo di Conte e Barone, dopo aver acquisito interessi nell’isola, nel 1842 era rappresentata da Salvatore di Vincenzo e a sua volta di Salvatore. “Baroni di Gurafi e di Noto, fin dal XIV secolo si ha notizie che tale Giovan Bernardo ebbe la carica di notaro dell’ufficio di regio portuale per privilegi del 30 gennaio esecutori a 24 luglio 1519; un Pietro, con privilegi dato a 10 novembre 1539, esecutorio a 16 dicembre 1574, fu nominato regio decreto di Noto; un Michele, 10 luglio 1548, fu nominato credenziere della Gabella delle carni di Noto ed egli stesso con privilegio del 29 maggio 1548, ottenne la concessione del titolo di regio cavaliere con riconoscimento e l’accrescimento dello stemma gentilizio; un Pietro Antonio fu cavaliere dell’ordine dei cavalieri di Malta 1567; un Stefano fu senatore di Messina negli anni 1551 - 52 – 54 – 55 – 1560 – 61 – 1570 – 71 – 1574 – 75.” Come è evidente, uomini di questo mio casato, ebbero spesso avventure, privilegi, e percorsi esistenziali diversi. Sì, nobile casta, la mia - soprattutto d’animo - ma pochi lo sanno, mentre molti credono il contrario: da bambino ho potuto constatare come la povertà della mia famiglia suscitasse, addirittura, il disprezzo, l’ilarità in alcune arroganti persone. Ragazzini maleducati, sfacciati, all’uscita di scuola m’indirizzavano il loro sfottimento, e si divertivano ripetendo una specie di filastrocca inventata chissà da chi e che faceva così: “U carusìttu senza birrìtta / non havi dinàri mi si l’accàtta / e so mamma, pòvira afflìtta / ci nni fici una di carta / cu la pampèra di cartùni / e ora pari un veru minchiùni.” Che vuol dire: “Il ragazzino senza berretto, non ha soldi per comprarselo e sua madre, povera afflitta, gliene ha fatto una di carta con la visiera di cartone, e ora sembra un vero minchione. Ragazzini maleducati, certo, i cui padri andavano fieri della loro arroganza, e della loro maleducazione; ragazzini, solo ragazzini che in futuro non avrebbero avuto né arte e né parte, che oggi non potrebbero suscitare rancore; suscitano invece pietà coloro che poi sono stati assassinati da criminali loro simili: erano futuri uomini senza storia, dei quali non vi è alcuna memoria: soltanto ombre anonime di un tempo passato. Un passato difficile che a me è servito per maturare e per forgiarmi, tanto da poter affrontare… - Avere tra le mani un tale manoscritto e constatare che quasi la sua metà è divorato dalle fiamme, fa sentire male l’occasionale lettore al quale tocca girare quel quarto di pagina e riprendere la lettura più avanti.


Condizioni di miseria


L’uomo può uccidere il proprio simile. L’uomo può anche uccidere se stesso o essere capace dei più gravi atti maligni, ma ha, altresì, la straordinaria capacità di realizzare meravigliose opere a fin di bene e di combattere le battaglie più nobili, anche a rischio della propria stessa vita. Questo essere è dunque fra le più contraddittorie e sorprendenti creature di tutto l’universo conosciuto; la mente dell’uomo, ovvero il cervello, di sicuro rimarrà ancora per lungo tempo un mistero. È per questo che a volte mi domando come mai l’essere umano…

Un altro spezzone di pagina le cui ultime righe inconcludenti spingono Andrea Marzio a ricordare ancora gli avvenimenti di molti anni prima e a pensare, tanto che gli sembra di precipitare in un incubo. Vede, come su uno schermo cinematografico, un’autovettura che viaggia, sta sorpassando un camion che va lento, questo si sposta improvvisamente verso sinistra e la spinge fuori dalla carreggiata in un profondo burrone dove prende fuoco. A bordo dell’auto vi è Giosuè Antaris, che sarà rinvenuto carbonizzato. “Già: l’uomo può anche uccidere… essere capace dei più gravi atti maligni – mormora a se stesso Andrea – e può anche aspettare e preparare, intanto, la vendetta”. Suo fratello aveva pensato di denunciare gli assassini del padre, ma era sicuro che se avesse agito legalmente avrebbe avuto contro le ritorsioni di una potente famiglia mafiosa, e poi non credeva che per farli condannare sarebbe bastata la testimonianza di Andrea che era soltanto un bambino. Poteva solo vendicarsi, e per ciò attese pazientemente l’occasione propizia per più di un anno.


Il giovane pittore, come stordito, stringe forte le palpebre, si passa una mano sulla fronte e prosegue a leggere oltre le pagine assenti o illeggibile.

…da un casato la cui strana storia s’incrocia con quella di famiglie e uomini più disparati. Da quel che si evince, questo baronato, tra l’altro, doveva avere dei possedimenti, delle ricchezze notevoli. Eppure la mia era una famiglia povera. Proprio per questo, l’amico di mio padre, lo storico, fu indotto ad indagare in maniera approfondita, per avere più chiare informazioni. Fu così che venne risolto il quesito: pare che, verso la metà dell’ottocento, i fratelli Vincenzo, Domenico, Salvatore e Giuseppe vendettero un poco per volta gran parte dei loro possedimenti e sperperarono tutto in viaggi con bellissime donne. Era quel tempo in cui il musicista Placido Mandanici (nato a Barcellona - allora rione marino del grande comune di Castroreale - e formatosi alla scuola musicale del conservatorio di Palermo, dal 1815 al 1820) brillava tra le stelle del mondo del melodramma europeo. I baronetti, amanti della buona musica, conoscevano l’artista compaesano e, a cominciare da quelli già maggiorenni, lo seguirono, prima a Napoli, dove ai Teatri del Fondo e al Regio si davano le sue opere, e poi a Milano dove il 16 giugno del 1841 poterono assistere anche alla prima dell’opera buffa “Il Bontempone di Porta Ticinese”. I miei antenati erano talmente legati d’amicizia al Mandanici che si recarono persino a Genova quando il 6 di giugno del 1852 il musicista si spense. Ormai, i fratelli, specie quelli più giovani, talmente attratti dal lusso della bella vita, continuarono a viaggiare e spendere. Poi, ridotti senza un soldo e con i soli vestiti addosso, presero la via di casa. Le abitudini e i vizi acquisiti dei baronetti avevano fatto di loro degli incapaci a gestire equilibratamente qualsiasi loro avere. È vero che ormai la rivoluzione francese era alle spalle, che dopo la morte del Bonaparte in Europa c’era stata la restaurazione, ma è vero anche quanto affermato dal professore trentino Claudio Donati, cioè che i nuovi valori su cui si doveva fondare un’aristocrazia nella società e nello stato erano diventati la proprietà e il merito personale. Quello chenon contava più nulla era la nobiltà in quanto classe con diritti feudali o in quanto ordine dello stato. Per concludere, e come autorizza ad affermare lo storico Giandomenico Romagnoli “Deve, ove vi fosse una tale nobiltà, essere spogliata d’ogni giurisdizione ed aboliti i vincoli fedecommissarii, lasciando ad essa di domandare e di poter conseguire la nuova nobiltà, o volendo, di entrare nella classe dei nuovi possidenti e di concorrere colle altre classi alle funzioni politiche dello stato, permettendole colle solite discipline di usare dell’avita illustrazione derivante da’ suoi titolo”. Pertanto e, come se non bastasse, la spedizione dei Mille in Sicilia non fu certamente salutare per il già striminzito patrimonio del casato baronale. I quattro fratelli abbracciarono con grande spirito patriottico e di sacrificio la causa garibaldina tanto da contribuire con delle somme di denaro non indifferenti. Alla fine dei fatti bellici – quando in tanti, persino molti che non avevano avuto nessuna parte nella cacciata dei borboni dal potere e, perciò, alcun merito, ne approfittarono e si arricchirono – ormai ai quattro fratelli erano rimasti, oltre l’encomio verbale di Giuseppe Garibaldi e l’amicizia del generale Giovanni Corrao, ai cui ordini avevano combattuto per la conquista del castello di Milazzo, pochi spezzoni di terra e pochissime case. Allora i tanti amici facoltosi si allontanarono e i baroni rimasero soli con se stessi, ma già si rendevano conto in quale situazione versavano. Avevano venduto tutto, persino i pregiati mobili antichi, con grande dispiacere, ma il maggior dolore gli venne dal fatto che furono costretti a vendere i tantissimi, rari libri. “Ricordatevi sempre – aveva detto loro il nonno paterno – i libri sono un bene preziosissimo poiché contengono il sapere, le esperienze, i costumi, le conquiste, le sofferenze degli uomini, quindi i moltissimi insegnamenti e tutto ciò a cui si è attinto per scrivere la storia degli uomini”. Erano rimasti nudi di ogni testimonianza culturale del loro casato. Tutto attorno avevano scoperto il vuoto: nulla più potevano ricordare di quel passato di uomini nobili, facoltosi ed eredi di un grande antico casato. Pare che soltanto uno dei figli di Vincenzo, il più giovane dei quattro fratelli, Stefano, un ragazzo molto intelligente, ma discolo, il quale proprio per questo motivo era stato chiuso in un collegio, sia riuscito a studiare fino a diventare notaio. Costui, trasferitosi nella città di Messina, verso la fine del milleottocento, dove si era sposato, aveva avuto due figli maschi e una femmina. La vita trascorreva serena o almeno così sembrava dall’esterno anche se la moglie era molto cambiata: la donna aveva perso il fascino di quando il notaio l’aveva conosciuta, era diventata superba, arrogante, permalosa, dispettosa e cattiva, perciò molto insopportabile. Ma più che altro era diventata obesa e brutta e, quel che peggio, morbosamente gelosa. I figli ormai si erano sposati e lui aveva superato la cinquantina quando un giorno, al culmine della sua esasperazione a causa di una scenata di gelosia della moglie, montò sul calesse e partì alla volta di Catania. Molto contrariato ed infelice aveva intenzione di svagarsi per dimenticare le angherie di lei. Nella città dell’Etna non mancarono le occasioni. Tanto per incominciare bene la serata andò a teatro dove vi era una compagnia di varietà ricca di belle donnine; alla fine volle concludere alla grande: abbordò due di quelle ballerine disposte ad arrotondare lo stipendio, e se le portò in albergo. Avrebbe voluto fare crepare di rabbia la moglie, pertanto non pensò affatto di frenare l’istinto di chiamare un cameriere a cui dettò un telegramma da spedire immediatamente. Il giorno dopo, di buon’ora, il postino bussò alla porta di casa del notaio conosciuto come Stefano il notaio-barone. Si affacciò il figlio maggiore a cui fu consegnato il te-legramma indirizzato alla propria madre. L’uomo lo aprì e lesse ciò che la moglie del notaio non seppe mai: “Catania giunti stop – bellerine fottere stop – tirare a sgangare stop – sticchiere amorose stop”. Il figlio del notaio, conoscendo il padre, succube della madre, sorrise, ma, conoscendo ancor di più lei, pensò bene di distruggere quello scritto, però poi, chissà perché volle conservare il telegramma dove sua madre non l’avrebbe mai potuto trovare. Lo stesso fu rinvenuto da un nipote curioso del notaio-barone, in una cassapanca, a metà degli anni novanta del secolo scorso, il quale, a sua volta, non poté che sorridere facendosi un’idea del carattere dei propri nonni. È facile intuire come le nuove condizioni del ramo della famiglia rimasta radicata nei luoghi d’origine si fosse ridotta sempre più nelle condizioni di miseria. La gente dimentica facilmente i benefici ricevuti e, qui, dimenticò persino a quale rango appartenessero i miei antenati. La nuova situazione venutasi a creare era, oramai, quella che la gente riusciva più facile riconoscere poiché aveva convenienza. Di conseguenza quegli eredi crebbero quasi ignorando le proprie nobili origini e, spesso, asservendosi ai nuovi affaristi arricchitisi a scapito dei nobili decaduti nelle condizioni più umili, proprio come loro. A tal proposito, lo storico mi raccontava che nella prima metà del novecento vi erano dei discendenti di quella famiglia, e tra questi i miei antenati più prossimi, ridotti a lavorare come muli, dove capitava e, anche, fra giornalieri della campagna, oppure come operai forestali, agli ordini di un caposquadra, dove si costruivano sentieri e muri a secco per contenere il terreno soprastante, si decespugliava, si piantavano alberelli e si creavano percorsi obbligati lì dove, d’estate, gli incendi cadono nella normalità. La sera, per impervi viottoli e sentieri, si faceva ritorno a casa percorrendo diversi chilometri a piedi e con un fascio di legna per il focolaio sulle spalle…


Vorrebbe continuare a leggere il seguito, ma la pagina finisce con questa frase ed il lettore non può che proseguire più avanti, oltre le pagine mancanti.

…non solo perché era fraterno amico di mio padre. Lo storico era un appassionato ricercatore della verità, a costo di ritrovarsi con i polmoni saturi della polvere di cui i documenti nelle antiche biblioteche e soffitte erano coperti. Di quella verità io mi nutrivo spesso, quando riuscivo a tornare in Sicilia. Egli era preciso, puntuale e calamitava la mia attenzione, così scoprivo, tra l’altro, con soddisfazione, parte della storia del mio casato. Adesso non si trattava più di storia lontana dal tempo in cui stavo vivendo; ciò che mi narrava era storia recente della quale, io fanciullo, avevo sentito raccontare da mio nonno paterno al quale, chissà perché, non sempre davo ascolto, forse perché mi distraevo come sogliono fare i bambini. Ricordo che, quando ero già ragazzo, mio padre mi fece scoprire un segreto e mi illustrò l’importanza di tale segreto contenuto alla base del tronco di un ulivo plurisecolare. Quindi, grazie ai racconti chiarificatori dello storico, ma soprattutto a ciò che mio padre mi aveva fatto constatare, mi venne in mente di scrivere una specie di ballata per un amico: il cantastorie Gianni Argurio. Una ballata, narrante fatti precedenti la battaglia di Milazzo, che mi piace annotare qui di seguito.


***

Il segreto del gigantesco ulivo

Quando Garibaldi conquistò il castello di Milazzo


Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che sotto le radici di un gigantesco ulivo di Limitra, una sperduta contrada a Sud di Barcellona Pozzo di Gotto, potesse esserci un ricovero per uomini e cose. Da qui sono arrivati parte dei rifornimenti alimentari per i garibaldini, subito dopo la battaglia di Milazzo, prima di mettersi in marcia alla volta di Messina.

***

L’antico ulivo e la sua fine


Avverto i segni, spiragli di luce,

mi abbandono e mi lascio guidare:

voglio scoprire dove mi conduce

la musa che mi vuole raccontare

dell’esistenza di un antico ulivo,

ulivo forte, alto, secolare

che, prima, di uguale non udivo,

che un segreto poteva celare.

Godeva l’occhio di chi lo guardava,

di chi quel gran fenomeno ha ammirato;

chiunque nei pressi si fermava

finché un fulmine non lo ha atterrato.

Arde e scoppietta il grosso tizzone;

e chi poteva, ciò, immaginare

lontano dal camino e dal rione

nella stagione del sole e del mare?

E chi l’avrebbe mai immaginato,

in quel momento, sei secoli prima,

scegliendolo per essere impiantato

tale alberello ancor tenera cima?

La terra grassa in giusta misura,

le cure e le attenzioni ricevute,

compreso il concime e la potatura,

da generazioni prima vissute,

hanno concesso ch’egli diventasse

l’enorme ulivo dall’immensa chioma.

Non vi era uomo che non lo amasse,

non lo vantasse nel locale idioma,

per secoli, fino a pochi anni or sono,

quando, d’inverno, un fulmine maligno,

seguito dall’esplodere d’un tuono,

come fosse un infuocato macigno,

immenso, che non si può immaginare,

giunse dal cielo, obliquo e ben mirato,

e quello che s’era fatto ammirare,

l’albero più maestoso, fu atterrato.

Ne aveva visti di feroci inverni,

venti di scirocco e di tramontana,

lunghi tormenti da sembrare eterni.

Quella è la pianta robusta e sana

che aveva vinto spinte impetuose

e sopportato scosse sconvolgenti

da far tremare persone e cose,

ma come eroe che vince gli eventi

cede soltanto alla forza divina.

Massiccio tronco, ruvido, contorto,

vinto, ormai, da sorte assassina,

per tanti era stato come un porto,

posto sicuro dal mare in tempesta.

Tronco possente, divenuto un mito,

per il sostegno dell’immane cresta,

sembrava che avesse assorbito

i segni di qualunque dramma umano.

Le sue sporgenze, i suoi anfratti

come opera di artistica mano,

sembravano di proposito fatti;

fenomeno, figlio della natura,

da tanti quel tronco era inteso.

Chissà se ciò vedrà gente futura

rimarrà un racconto inatteso?

Arde quel ceppo, parte di un ulivo,

colpito in un tramonto, a tradimento.

Nulla l’aveva potuto sfiorare,

mai nessun vento nessuna tempesta,

avvezzo era, ormai, a sopportare

come un eroe col cimiero in testa.

In tutti gli anni, il sacro, immenso ulivo

Si presentava carico e superbo.

Nessuno mai lo vide improduttivo,

mai delusione recava in serbo.

Si presentava ricco del suo frutto,

di quelle olive genuine, sane;

chi le raccoglieva sapeva tutto

delle fatiche mai state vane,

nel constatare, alla spremitura,

quell’olio così tanto abbondante,

generosità di madre natura

che sarà, in avvenire, ricordante.

Miracolo dell’arte creatrice,

con il potere di testimoniare,

di trasformare rozza superficie

in qualche cosa che si fa ammirare.

Parte di un ramo dell’immenso ulivo,

dopo un’ottima stagionatura,

in un certo momento decisivo,

è stato modellato in scultura.

Ecco che la fatica è conclusa,

l’opera d’arte, finalmente, è nata;

splendida, sembra viva la “Medusa”,

nel momento ch’è stata trasformata

nel mostro che al posto dei capelli

le erano spuntati, all’improvviso,

sopra la testa, tanti serpentelli,

rendendo mostruoso un tal bel viso.

La pianta, dono della dea Atena,

come il mito ci tramanda e dice,

contro Poseidone vinse, serena,

e divenne d’Atene protettrice.

Sì, l’ulivo che dal mito è nato

è giusto che nel mito viva ancora;

l’aspetto di Medusa gli è dato

e ha trovato già la sua dimora.

Arde l’ulivo e non fa più ombra,

dov’espanse, tutta quanta, la fronda

che quell’aria di cielo ha reso sgombra.

La gente accorsa circondò la pianta,

voleva capire, meravigliata,

incredula, quasi, nel constatare

come il fenomeno della contrada

si sia fatto, così, atterrare.

Arde dentro il camino il tizzone,

ultimo ceppo di quel buon gigante

il cui tronco fu, anche, protezione

in più di qualche momento inquietante.

Cadde l’ulivo al suolo, schiantato,

non vi è più festa sotto la sua chioma;

sulla sua ombra cadde umiliato

e non si canta, nel locale idioma,

come in passato, durante il raccolto.

Sembra svanita l’allegria antica,

sembra un po’ più triste ciascun volto

da quando non vi è più la pianta amica.

Resta soltanto un poco di calore

che viene da quel ceppo nel camino,

ne avrà ancora per un paio d’ore

prima d’esser ridotto al lumicino.

Non c’è più il tronco nel terreno, ora,

non più l’accesso che sotto portava,

nel locale interrato che talora,

l’uomo e i suoi viveri celava.


La rivelazione


Salvatore, un uomo di quarant’anni, un pomeriggio di fine settembre, condusse il figlio Giuseppe, di tredici anni, con sé nel suo uliveto sulla collina. Raccolsero un bel po’ di olive, ed erano sul punto di prendere il sacco e metterlo sul mulo per fare ritorno verso casa, quando sopraggiunse un forte acquazzone. Il ragazzino si accostò al tronco del grande ulivo per tentare di ripararsi dalla pioggia e disse:

“Piove troppo forte, ci inzupperemo come spugne”.

“No - rispose l’uomo - c’è un posto dove possiamo ripararci”. Intanto si dava da fare per sgombrare da frasche, ramoscelli e da alcune pietre l’interno di quell’enorme tronco attraverso un’ampia spaccatura naturale. Le frasche e le pietre servivano per celare una botola della quale afferrata la maniglia di ferro, con uno sforzo tirò verso l’alto e, con sbalordimento del figlio, si manifestò un passaggio che conduceva sottoterra, verso Nord-Ovest dallo stesso tronco.

“Vieni – disse l’uomo – seguimi se ti vuoi riparare dalla pioggia”. E intanto scompariva, come inghiottito, nel sottosuolo; quindi, con l’accendisigari accese una fiaccola che stava attaccata ad una parete. Il ragazzo seguì il padre, sempre più sorpreso, e chiese:

“Come sapevi di questo strano ricovero?”

“Me lo indicò mio padre quando avevo, più o meno, la tua età”. Rispose l’uomo.

“E chi l’ha scavato?” chiese il ragazzo, incuriosito da quella costruzione sotto il possente ulivo, arieggiata per mezzo di tubi di terracotta che sboccavano all’esterno, in un muro a secco di sostegno al terreno, con apertura verso il basso affinché non vi potesse entrare acqua, e con una rete, a stretta maglia metallica, alle imboccature interne ed esterne per impedire l’ingresso nel locale d’insetti, ratti ed altri animali.

“Questo comodo locale, che come vedi misura circa cinque metri per cinque, lo costruirono il nonno di mio nonno, che portava il mio stesso nome, e suo padre, che si chiamava Domenico. Qui nascondevano l’olio, il vino, il grano ed altri cereali nonché il pesce salato e sottolio e anche la carne salata, il prosciutto, la soppressata, i formaggi ed altro, ma questo posto è servito pure per nascondere il padre di mio nonno e, quindi sfuggire ai gendarmi borbonici durante la sua latitanza”.

“Ma perché – chiese il ragazzo – hanno dovuto nascondere tutto quel bene di Dio, e perché tuo nonno era latitante”.

“Devi sapere che in quel periodo si era sparsa la voce che il generale Giuseppe Garibaldi con il suo esercito di volontari era sbarcato in Sicilia e che, appena battuti i borboni nella Sicilia Occidentale si sarebbe apprestato a marciare su Milazzo, perciò il Reggio Governatore aveva ordinato di rastrellare ogni bene di prima necessità per il sostentamento delle truppe che si stavano preparando a resistere al nemico e, nello stesso tempo, affinché le scorte alimentari non cadessero nelle mani dell’esercito garibaldino. Tutti nascondevano quantità di viveri, e ciò rese tranquilla la gente quando poi i Regi uscirono da Milazzo con forze poderose con a capo il generale Bosco che aveva animato i soldati con la promessa del bottino e dell’incendio di Barcellona Pozzo di Gotto, ma ciò grazie al sacrificio di tanti volontari garibaldini non avvenne. Per quanto riguarda la latitanza del padre di mio nonno, che aveva lo stesso nome di suo nonno, cioè Domenico, fu dovuta al fatto che aveva ucciso un ufficiale borbonico”.

***

Duello rusticano


Quell’antenato era innamorato

di una ragazza di nome Concetta,

da lei, certamente, ricambiato,

però subiva la corte scorretta

di un giovane ufficiale borbone

che era della donna infatuato.

La importunava sempre il marpione,

tanto che un giorno infausto fu affrontato;

ma in mal modo reagì, ed irruente

tirò fuori un coltello, il forsennato.

Domenico capì che, in quel frangente,

non sarebbe sfuggito all’uomo armato.

Tre passi indietro fece il fidanzato

di Concetta, la bella biondina,

e, subito, anche lui apparve armato

e la sua mano divenne assassina.


***


Il padre del nonno di Salvatore una sera attese Fernando de Costancia all’uscita di un locale, questo il nome del borbone che insidiava la sua fidanzata, e lo affrontò con parole pesanti tanto che l’ufficiale si sentì fortemente offeso e reagì dando del pezzente a Domenico, accompagnando l’insulto con uno spintone. Domenico rispose a sua volta con violenza e sferrò un pugno in faccia all’ufficiale che, temendo di essere sopraffatto, tirò fuori un coltello a serramanico con un lunga lama. Domenico fu costretto ad indietreggiare, ma anche lui aveva con sé un coltello, quindi, lo tirò fuori e si armò a sua volta. I due si studiarono per un po’, giravano come a formare un cerchio, ora verso desta, ora verso sinistra, poi, con dei scatti improvvisi in avanti, ciascuno cercava di sorprendere l’altro. In un tentativo di affondo del borbone, Domenico saltò indietro e scansò l’assalto dell’avversario. L’ufficiale ripeté a sorpresa il tentativo di affondare, ancora per due volte, pertanto Domenico fu costretto ad indietreggiare per evitare i colpi, poi scivolò sull’acciottolato e cadde all’indietro; il nemico cercò di approfittare del vantaggio insperato e si scagliò addosso a Domenico, ma questo, fulmineo, alzò il piede destro e colpì violentemente Fernando al basso ventre il quale, per il dolore, rimase immobile qualche istante, giusto il tempo perché Domenico lanciasse il braccio armato verso il petto dell’ufficiale che fu colpito mortalmente al cuore. Intanto altre persone, soldati e civili, erano sopraggiunti e avevano assistito all’ultimo atto di quel duello rusticano. Salvatore capì di essere in pericolo e di non poter fare altro che scappare per mettersi in salvo

dai commilitoni di Fernando che intanto gridavano:

“Hanno ucciso Fernando de Costancia”. È chiaro che, quei soldati, mai avrebbero compreso le ragioni di Domenico.


***


La conquista del castello di Milazzo


Corse Domenico, corse veloce

al grido degli amici di Fernando

mentre qualcuno diceva a gran voce:

“Quell’assassino si sta dileguando,

ma io l’ho visto e lo saprò indicare,

quel maledetto, e dovrà pagare”.

Corse Domenico, corse veloce,

giunse in casa come catapultato,

pensando in quale situazione atroce,

suo malgrado, si era cacciato.

Si confidò, Domenico, col padre

di quell’involontario reato;

lacrimavano gli occhi della madre

mentre lui appariva concitato.

Gli disse il padre: “Sai dove andare;

solo a Limitra sarai al sicuro;

io, domani, ti verrò a trovare,

intanto resta calmo e tieni duro”.

E giunse, finalmente, Garibaldi

con il suo esercito in camicia rossa;

la maggior parte giovani spavaldi.

Giunse, così, l’ora della riscossa;

questa, allora, non altro si credeva,

e Salvatore stava su un terrazzo

e a quella sfilata assisteva.

L’eroe si dirigeva a Milazzo

per la battaglia che si prospettava

difficile e tanto sanguinosa.

Molta la gente che si arruolava

senza pensare all’impresa rischiosa.

Anche Domenico si arruolava

assieme a suo figlio, il latitante;

combatterono con grande ardore

tra i tanti morti e il lamento straziante

dei feriti di quella battaglia.

Caddero palizzate e ogni cancello,

bruciò il fuoco attorno la paglia,

coprì il fumo l’assalto al castello,

uscirono in massa dai covoni;

camicie rosse ovunque tra le case,

a cui si arresero i borboni,

fino a concludersi l’ultima fase.


***


Conclusa, finalmente, la battaglia, dopo aver preso possesso del castello di Milazzo, il generale Garibaldi passò in rassegna la truppa e i volontari del luogo schierati a lui di fronte. Quindi, dopo avere avuto per tutti parole di affetto, disse ancora: “Potrete raccontare ai vostri figli di avere partecipato anche voi in prima persona alla lotta per la realizzazione dell’unità della nostra bellissima e amata Italia – Poi aggiunse – Poiché alla truppa servono viveri mi appello alla vostra conoscenza del territorio per cercare di reperirne. Di ciò ve ne sarò, personalmente, grato”. Salvatore e Domenico furono tra i primi a farsi avanti e fu proprio quest’ultimo a dire: “Generale, ci lasci andare; domani sera saremo di ritorno da Barcellona Pozzo di Gotto con quattro muli carichi di olio, di vino, di carne salata e di cereali”. “Siete liberi di andare – rispose Garibaldi – ma prima aspettate che vi firmi due lasciapassare altrimenti sarà difficile che le guardie vi facciano rientrare al castello”. Ricevuti i lasciapassare, padre e figlio, saltarono sui rispettivi cavalli e si avviarono alla volta di Barcellona Pozzo di Gotto dove passarono la notte. La mattina dopo andarono, di buon’ora, nella propria stalla dove prelevarono quatto muli con rispettive bisacce, i contenitori per l’olio e il vino, quindi, si avviarono verso la contrada Limitra. Quando furono nei pressi del gigantesco ulivo, i due garibaldini, si guardarono intorno per vedere se vi fossero degli estranei e poi aprirono la botola all’interno del tronco dell’albero. Meno di un’ora dopo i muli erano pronti a partire, carichi di quel ben di Dio che il plurisecolare ulivo custodiva sotto le proprie radici, dove mai nessuno avrebbe potuto sospettare.

***

Il cantastorie canta fatti veri,

canta la vita e gli sconvolgimenti;

canta gli eroi e canta i misteri,

canta di cuori allegri, tristi o spenti.

Canta, a volte cose fenomenali,

il cantastorie, cuore di poeta,

nell’inventiva non teme rivali:

è un turbinìo ed è anima inquieta.

Proprio come poeta incantato

da brava gente che gli dà il motivo,

si è fermato qui e ha cantato,

dei garibaldini e di un ulivo.


***


Oggi non c’e più l’ulivo e, purtroppo, non c’è più nemmeno quel locale segreto celato dal suo tronco. Ricordo personalmente quando, un po’ per il tempo trascorso che tutto trasforma, un po’ per le grandi piogge infiltratesi nel sottosuolo, uno smottamento naturale causò…

- Cosi si conclude questa parte a causa del fuoco divoratore di alcune seguenti fragili pagine.


L’alba del pentimento


…perché sembrava che una progenie maligna lo avesse gettato su questo mondo.

Nella notte umida e nera l’uomo correva. Un vento gelido lo schiaffeggiava, ma sotto i vestiti grondava sudore. I suoi peccati non erano di lieve entità, ma mai come in quel momento se ne era reso conto. Era sempre sfuggito alla giustizia. Era al di sopra di ogni sospetto e, pertanto, la magistratura non aveva mai indagato sul suo operato. Continuava a correre, anche se la fatica rendeva sempre più pesanti i suoi passi, ciò, però, non gli impediva di pensare a quei peccati; e fu così che scoprì di avere una coscienza, la quale faceva sentire la sua severità. Sapeva che non sarebbe potuto sfuggire agli inseguitori, così come non poteva sottrarsi alla propria coscienza. Da pochi giorni aveva compiuto trent’anni, e pensò che non era giusto morire a quell’età. Ma i suoi inseguitori non erano dello stesso parere e, di ciò, lui era cosciente così com’era convinto che lo avrebbero raggiunto e giustiziato sommariamente, senza pietà, come un animale feroce che, a sua volta, non aveva avuto pietà per le sue vittime. Continuava la corsa e gli sembrava che quel buio sentiero, costeggiato da grossi alberi, non dovesse finire mai. Nonostante il buio andava più spedito che poteva: conosceva ogni ciottolo di quel percorso; lo aveva fatto centinaia di volte, fin da bambino, quando con la famiglia abitava nella sua vecchia casa sulla collina. Tempi lontani, ormai, che facevano parte della sua storia, ai quali non aveva più rivolto il pensiero, ma adesso gli scorreva tutto davanti agli occhi: ogni anno, per tradizione, fin dal primo giorno della novena di Natale, sua madre svegliava lui e i fratelli alle cinque del mattino, ed ancora con gli occhi assonnati, ben coperti, con berretto cappotto e sciarpa di lana, giù per il sentiero, fino alla chiesa del paese vicino, richiamati dall’armonioso suono delle ciaramelle che veniva da poco lontano, quando ancora tutto intorno era avvolto nel buio. Poi trascorse quel tempo che tutto cambia, ed il bambino divenne uomo, improvvisamente; un mattino si trovò costretto a seguire le orme e gli amici del padre. Un giorno si sentì dare un ordine perentorio: “spara!” un ordine che gli tuonò nel cervello e nel cuore più forte dello scoppio dell’arma che imbracciava. Mai si era trovato faccia a faccia con la propria coscienza, mai aveva riflettuto su tutto il male che aveva fatto, così come mai, prima, si era sentito in quello stesso pericolo. Sapeva che gli inseguitori lo avrebbero raggiunto, ma l’uomo strinse i denti e continuò a correre. Finalmente il sentiero uscì dalla boscaglia e, agli occhi del fuggitivo, apparve il cielo punteggiato di stelle; una di quelle stelle gli sembrò più luminosa delle altre, e pensò che avrebbe voluto essere irraggiungibile come quell’astro. Improvvisamente fu distratto da un suono a lui familiare e si sentì gioire dentro, come se da quel suono potesse dipendere la salvezza di se stesso. Ascoltò con più attenzione per rendersi conto che non si era sbagliato e si convinse che era il suono di ciaramella, guardò giù a valle e vide il paesello con i suoi numerosi puntini luminosi e lo spiazzale della chiesa dove da bambino aveva tanto giocato. A quella vista fu come rinvigorito nelle forze e continuò la corsa pieno di speranza. Arrivato in paese smise di correre e si unì ad uno dei tanti gruppetti di persone che, con dei lumi in mano, provenivano dalle diverse strade e si dirigevano verso la chiesa per assistere alla funzione della novena natalizia. L’uomo, assieme agli altri, entrò in chiesa dove fu attratto da una modesta fila di fedeli che stava davanti al confessionale e, come spinto da una forza magnetica, si mise in coda. Arrivato il suo turno si inginocchiò per confessare i suoi orrendi reati e quindi purificarsi l’anima. Poi ascoltò l’“ego absolvo…” e si rialzò. Durante la messa prese l’ostia consacrata della comunione e si sentì, finalmente, vicino a Dio. Alla fine della funzione, al suono delle ciaramelle e del vociare dei tanti bambini, i fedeli uscirono ordinatamente dalla chiesa, quando il cielo del nuovo giorno era schiarito. L’uomo che aveva tanto corso per sfuggire ai suoi inseguitori era lì, in mezzo agli altri, gli sembrava di essere un uomo diverso da quello che era prima di entrare in chiesa: si sentiva tranquillo, aveva dimenticato i suoi nemici, quando nell’aria tuonarono dei colpi d’arma da fuoco; avvertì come delle punzecchiature sulla pelle; gli sembrò di sentire un bruciore generale sul corpo mentre si accasciava al suolo mormorando:

“Signore, non sono riusciti ad uccidere la mia anima.” Mentre l’uomo, che tanto aveva corso in quell’approssimarsi di una fredda alba di dicembre, giaceva nel sangue che gli veniva fuori, copioso, dalle ferite causate dai proiettili, la gente, impaurita, si dileguava alla stessa maniera degli assassini. Accanto al corpo inerte si era avvicinata una figura di donna ammantata, e lì rimase; era la giovane sorella dello sfortunato uomo. Ella singhiozzava, ma non le usciva una sola parola dalla gola. A lei si accostò un giovane distinto, vestito di tutto punto in velluto scuro dello stesso colore del cappello a larghe falde; egli si scoprì il capo intanto che si avvicinava alla giovane: era don Peppe, alto, energico e ben in vista in paese e dintorni, anche perché il nonno si era distinto nella battaglia per la presa del castello di Milazzo agli ordini del generale garibaldino Giovanni Corrao.

“Vieni, Maria – disse don Peppe alla ragazza – ti accompagno a casa. C’è chi si occuperà di tuo fratello.” La ragazza era stata già notata da don Peppe e non gli dispiaceva affatto, anzi ne era infatuato. Essa era considerata una bellezza fuori dal comune, per i suoi occhi verdemare, per i capelli dorati e la pelle del viso come una rosea pesca, con rare lentiggini, infatti tutti la intendevano Maria la normanna. Qualche anno dopo Peppe e Maria convolarono in matrimonio e da loro nacquero quattro figli, tre maschi e una femmina; di questi, però solo del secondogenito si può affermare che era una persona onesta e perbene; gli altri non hanno una storia limpida, a cominciare dal primogenito del quale c’è da dire qualcosa che non gli fa onore: era arrogante ed anche vigliacco, ingannatore, avvezzo ad arraffare ed approfittare della bontà altrui.

Il tempo è galantuomo, diceva mio padre, e dà a ciascuno ciò che gli è dovuto, e chi sostiene il contrario sbaglia, e lo dimostra il fatto che…


Una punta di orgoglio


- Andrea Marzio sospira profondamente, alza il viso verso il cielo, rimane un attimo immobile e si riconcentra su quella pagina del manoscritto, che si presenta leggibile, affumicata, umidiccia, ma leggibile.

…li aveva rimproverati con severità perché, evidentemente, per mio padre era inconcepibile vedere il vecchio essere preso in giro da ragazzacci che, di certo, ignoravano chi, veramente, egli fosse stato. “Fino a poco tempo fa nessuno si sarebbe permesso di oltraggiare compare Santo - Disse mio padre, quasi tra se – Eppure, se non tutti, qualcuno dei padri o dei nonni di quei bastasi, sono sicuro, sa chi era “Santu u Ruppusu" (il nodoso).

“Quei deficienti non hanno rispetto per nessuno – dissi, e poi chiesi, a mio padre, pur sapendo che attorno a quell’uomo c’era del mistero – Ma chi era, realmente, “Santo u Ruppusu”?

“Tu hai compiuto il tuo diciassettesimo compleanno quindi dovresti capire e saper tenere un segreto; giusto?” - Disse mio padre.

“Giusto” – Affermai.

“E allora ascolta. Per molti anni, e fino a poco tempo dopo che nascessi tu, esisteva ed operava una specie di associazione segreta: “U Ghiommuru di Facci Mmucciati” (Il gomitolo delle facce nascoste oppure, più semplicemente “I Giusti”) della quale non tutti potevano farne parte, e vi si entrava dopo uno speciale rito che non so da chi era stato inventato. L’aspirante “Faccia Mmucciata” veniva presentato agli anziani da tre vecchi affiliati che si facevano garanti, ma prima di associarlo gli veniva assegnato un incarico che doveva portare a compimento da solo.”

“E quale era il motivo dell’esistenza di tale associazione? Quale era il compito che si prefiggeva svolgere? E come mai era segreta?” Chiesi a mio padre che, in breve, mi fece capire tutto.

“Gli associati si prefiggevano il compito di raddrizzare i torti subiti dai più deboli; tutte persone più o meno "vicine", e di proteggersi a vicenda in caso di pericolo: era l’unico modo perché la classe più umile potesse avere giustizia. Ma per ottenere giustizia, a volte, toccava mettersi contro i potenti, per cui conveniva tenere segreta l’identità.”

“Perché si chiamavano col nome di “Facci Mmucciati”? chiesi.

“Perché? Perché i loro componenti agivano nascondendosi il viso con dei cappucci neri.”

“Presso a poco, allora, tale associazione, era come la setta dei “Beati Paoli”, di cui parla Luigi Natoli nell’opera omonima.” Constatai.

“Presso a poco. Infatti, l’associazione nacque per volontà di due palermitani, perseguitati politici, che all’inizio del ‘700, per sfuggire alla polizia del vicerè si rifugiarono da queste parti. Pare che essi stessi facessero parte dei “Beati Paoli”. Qui, “U Ghiommuru di Facci Mmucciati”, all’inizio non aveva nome, ma poi la gente, la voce popolare la intese con questo appellativo. Quest’associazione non ha mai avuto, come i “Beati Paoli” a Palermo, un’attività continua; a volte non se ne sentiva parlare per lunghi anni. Sembra dato per certo che dopo la spedizione dei Mille, cioè la campagna garibaldina del luglio 1860, per un po’ di tempo, nessuno sentì parlare di “Facci Mmucciati” fino all’assassinio del generale Giovanni Corrao, l’illustre rivoluzionario garibaldino, avvenuto per mano mafiosa nel 1863.

“Allora potrebbero riapparire da un momento all’altro?” Chiesi.

“Non è detto che non possa succedere.” Rispose mio padre.

“Chi erano i componenti di tale associazione?”

“Quelli di cui sono a conoscenza erano tutte persone onestissime - chiarì mio padre – persone che lavoravano nei frantoi e nei magazzini di agrumi dove si spumano le bucce per ricavarne spirito pregiatissimo, ma c’erano anche dei muratori, manovali e altre categorie. I trappitari erano quasi tutti della zona collinare mentre gli altri appartenevano alle diverse zone del comune. Compare Santu u Ruppusu era uno dei capi. Dell’associazione facevano parte: Vanni Marru, Carmine Palinu, Turi u Boi, Franciscu Barnaru, Bastianu Carpulli, Fulippu Mustina, Luigi a Pesti, Giulianu Morsa, Angilu Sciroccu, Cocimu Ventu, e per ultimo mio padre che era conosciuto col soprannome di Don Peppi Raggiunanturi. Questi erano quelli che ho potuto conoscere, gli ultimi, ed erano definiti i “Dodici Apostoli”, ma vi erano ancora oltre una ventina di associati”.

“Come si svolgeva il rito?” Chiesi, sempre più curioso.

“Di notte, gli “Apostoli” tutti incappucciati, esclusi i tre padrini, cioè i garanti, con delle fiaccole accese, si recavano su, nel bosco, e si disponevano a cerchio intorno ad una piantina di quercia, non più alta di due metri e mezzo, il cui tronco veniva spaccato in due, verticalmente con un pugnale, da terra fino all’altezza dei primi ramoscelli. Così, mentre quattro da una parte e quattro dall’altra tenevano divaricate le due parti dell’albero, i tre padrini facevano passare, per tre volte, l’aspirante affiliato attraverso il tronco della pianta e, durante il passaggio, doveva ripetere la formula le cui parole erano suggerite dal capo. Tale formula così recitava: “Che io passa avere il cuore spaccato come quest’albero il giorno in cui, malauguratamente, dovessi tradire coloro i quali mi stanno concedendo l’onore di far parte del loro stesso segreto. Giuro di agire come loro, a beneficio dei deboli e di tutti quelli che hanno bisogno della nostra protezione.” Poi le due parti dell’albero venivano riunite e legate strettamente, con abbondanti filamenti di raffia, affinché non marcissero”.

Il racconto di mio padre mi affascinava. A quell’età ero facilmente suggestionabile, quindi la mia fantasia mi faceva vedere gli uomini di quella setta segreta come degli eroi, giustizieri che a rischio della propria vita riuscivano ad arrivare dove la legge non osava, non poteva o non voleva, ma ero anche orgoglioso perché immaginavo mio padre facente parte si quell’associazione.

“Che fine ha fatto la setta dei giustizieri?” Chiesi.

“Posso dirti solo che, diversi degli elementi che conoscevo io, sono molto invecchiati, alcuni sono deceduti, ma come puoi immaginare non è detto che la setta non possa risorgere dalle sue ceneri il giorno che ce ne fosse bisogno. Così come io sto raccontando a te di questo segreto, altri padri racconteranno o hanno già raccontato ai propri figli. Adesso conosci bene chi sono coloro che sanno o potrebbero sapere, così come loro saranno a conoscenza che tu sai. Anche se i tempi sono cambiati e non siamo più nell’epoca in cui vi era lo sfruttamento selvaggio delle classi sociali più povere da parte della classe padronale, all’occorrenza, per un giusto motivo, tu sai chi cercare come lo sapranno loro. Proprio perché adesso i tempi sono cambiati voi giovani siete avvantaggiati in tutto; fino a non molto tempo fa un umile lavoratore era trattato come uno schiavo, infatti se commetteva qualche errore sul posto di lavoro o si ribellava al duro trattamento erano nerbate. Mi ricordo che quando avevo poco più della tua età ho assistito ad una scena che oggi sarebbe inconcepibile: un ragazzo, più giovane di me, intanto che scaricavamo dei sacchi di grano da un carro, per la stanchezza, accidentalmente, inciampò e cadde al suolo, il sacco si lacerò e del grano si sparse per terra, allora un campiere del padrone diede a quel giovane tante nerbate che dopo un mese portava i segni sulle spalle. Però, quella stessa sera, a tarda ora, quando il campiere, in groppa alla sua giumenta stava percorrendo una trazzera per fare ritorno a casa, fu fermato da sei cavalieri incappucciati, i quali lo fecero smontare dalla cavalcatura, lo denudarono e, dopo averlo legato per i polsi fra due alberi, fu battuto col suo stesso nerbo fino a farlo sanguinare; quindi lo slegarono e, dopo averlo rivestito, fu aiutato a montare sulla cavalcatura, intanto che Santu u Ruppusu gli diceva:

“Questa lezione serva per farti ricordarti di non fare ad altri quello che non vorresti fosse fatto a te stesso.”

“Il sabato successivo, giorno di paga, il sole era già tramontato oltre il Capo Calavà – conti-nuava mio padre – quando…

- Il pittore continua a leggere oltre le pagine distrutte dal fuoco.

…perché, in fondo, mio nonno, sapeva quali erano le sue origini, anche se faceva di tutto per non ricordarle, ma quella volta non riuscì a soffocare una punta d’orgoglio.

Faceva il suo lavoro di caposquadra nel frantoio dei fratelli Coraci, in contrada Marsalini di Barcellona Pozzo di Gotto, quando una sera ebbe un diverbio con il vecchio barone Nicola, uno dei più superbi baroni del territorio. Sopra i sessant’anni, soprannominato “U riccu malanova”, ma anche “U baruni superbia maligna”, con i baffetti a manubrio sopra una faccia da cocomero, i capelli lisci, impomatati, con la riga al centro del cranio come il segno di un colpo di accetta, il panciotto stretto e scomodo sull’ombelico, con i bottoni che tiravano prepotentemente dentro le asole, tanto che sembravano essere sul punto di saltare da un momento all’altro come dei proiettili. Il barone arrivò a bordo del suo carrozzino trainato da un cavallo purosangue dal mantello nero come la coscienza del suo padrone, smontò e consegnò le redini al suo guardaspalle, quindi baldanzoso, entrò nel frantoio, ma appena notò che il muro formato dai suoi sacchi pieni di olive era lì intatto, come l’aveva lasciato, ebbe una selvaggia imprecazione alla quale seguirono gli insulti più pungenti in direzione degli operatori del frantoio. Mio nonno interruppe per qualche istante le sue mansioni e, avvicinatosi al barone, con calma ed educazione, gli chiese:

“Barone, la vedo contrariata; qualcosa non va?”

“Qualcosa non va? Lo zoticone ha anche il coraggio di rivolgermi la parola: mi chiede se qualcosa non va… Io vorrei sapere per quale motivo le mie olive non sono state ancora macinate. Cosa credi che io abbia del tempo da perdere, cialtrone!…” Così dicendo, tra una bestemmia a l’altra, con lo staffile che teneva in mano, colpì mio nonno il quale non aspettò un secondo colpo, infatti gli bloccò il polso e gli strappò l’arnese dalla mano, dicendo con sarcasmo:

“Signor Barone, lei è conosciuto come persona poco educata, prepotente e superba, ma qui, finché sarò io il caposquadra, ognuno sarà servito quando arriverà il proprio turno, e il suo turno, signor barone, non è arrivato ancora, ecco perché i suoi sacchi sono, tuttora, pieni. Adesso monti sul suo carrozzino e sparisca, altrimenti se dovessi perdere io la pazienza, il frustino, gli lascio immaginare benissimo dove glielo potrei ficcare. intanto questo – intenden-do il frustino – lo tengo io, almeno che non voglia chiedermi scusa davanti a queste stesse persone che hanno assistito al suo atto incivile.”

A quel punto, il barone, con atteggiamento di sfida, nel mentre girava sui tacchi, gli disse:

“Ti farò ingoiare tutta la tua arroganza, così ti ricorderai di me. Vedrai, vedrai chi sono io… Te lo ricorderai per tutta la vita che non siamo tutti uguali”.

Meno di mezz’ora dopo, due carabinieri fecero il loro ingresso nel frantoio e con determinazione cercarono di mio nonno, il quale si avvicinò loro dicendo:

”Sono io quello che cercate. A cosa debbo l’onore?”

“Ci segua.” Disse uno dei gendarmi.

“Posso sapere per quale motivo?” Chiese mio nonno. Quelli dichiararono che il barone aveva sporto denuncia contro di lui, quindi lo arrestavano, per aver oltraggiato in pubblico la dignità di un nobile signore e per essersi appropriato di un oggetto, cioè del frustino, di proprietà dell’oltraggiato. Mio nonno seguì i due carabinieri che lo condussero in caserma, quindi fu rinchiuso in una cella dove passò la notte. Il giorno dopo, nella tarda mattinata, doveva essere condotto al cospetto del giudice per essere interrogato circa i fatti imputatigli, ma quando aprirono la cella gli fu comunicato che poteva andare; era libero: il barone “Superbia maligna” aveva ritirato la denunzia. Certamente i carabinieri non potevano sapere che…

- La pagina appresso non esiste più, ed il pittore riprende oltre.

…quindi comprese che doveva darsi da fare immediatamente se voleva aiutare mio nonno.

Era ormai sera inoltrata quando mio padre riuscì a radunare gli “Apostoli” ai quali spiegò il suo piano. L’orologio del campanile batteva undici tocchi, quella notte tra il 13 ed il 14 ottobre del 1937, quando il barone “Malanova” usciva dal circolo frequentato dalla nobiltà locale. Quella data e quell’ora sicuramente non le avrebbe mai dimenticate. Le strade erano poco illuminate, ed il barone, avvolto in un nero mantello, si avviava, costeggiando una schiera di palazzi, sulla via di casa. Era contento: aveva giocato e vinto, perciò era in vena di fischiettare un motivetto che andava di moda in quegli anni. Ad un certo momento sentì dei passi dietro le sue spalle, si voltò e, a breve distanza, poté vedere quattro figure ammantate, col capo coperto da neri cappucci. Capì immediatamente che quegli uomini stavano seguendo lui, quindi s’inti-morì, smise di fischiettare e, quasi fra se, mormorò: “I Facci Mmucciati”, nel mentre accelerava il passo; quelli dietro andavano più spediti, e lui cominciò a correre. Era in prossimità di un incrocio, ma non poté attraversare la strada: quattro uomini gli sbarrarono il passo, e lui notò che avevano mantelli e cappucci neri proprio come quelli che gli stavano alle spalle. Cercò di chiamare aiuto, ma la voce non gli uscì: una possente mano gli tappava la bocca mentre altre lo afferravano per le braccia e lo trascinavano con uno strattone al di là di un muretto che separava la strada da un aranceto. Intanto che in sei lo tenevano fermo per le braccia e uno gli tappava la bocca, l’altro degli otto personaggi, standogli davanti gli disse:

“Barone Malanova, stasera hai commesso un’infamia nei confronti di un onesto lavoratore che non ha mai fatto del male ad anima viva; non solo hai dato dimostrazione della tua superbia, ti sei permesso, anche, di colpirlo col tuo staffile, ma, non contento, sei andato persino a denunciarlo ai carabinieri e, come se tu avessi ragione, lo hai fatto arrestare. Per meno di quello che hai fatto tu, qualcuno è morto. Cerca di capire cosa voglio dire: ti lasciamo vivere solo perché devi andare immediatamente a ritirare la denuncia contro quella persona perbene. Mi sono spiegato?” Quello che gli teneva la mano sulla bocca lo mise in condizione di parlare, ed il barone disse, balbettando:

“Si, si… Certamente…” Sapeva con chi aveva a che fare e credette di essere stato sfortunato d’averli incontrati, ma fortunato di aver ricevuto da loro la grazia della vita.

“Adesso puoi andare, e non voltarti.” gli disse quello che gli stava di fronte, intanto che gli altri lo lasciavano libero.

La sera successiva, a tarda ora, mio nonno andò a fare visita al barone, con la scusa di dovergli portare lo scudiscio; fu ricevuto dalla donna di servizio che gli chiese:

“Chi devo annunziare?”

“Dite al barone che don Peppi “U Raggiunaturi” gli ha portato il suo frustino e ci tiene a salutarlo”. La donna si ritirò e ritornò qualche istante dopo, per dire:

“Mi segua; il barone l’attende nel suo studio.”

Quando mio nonno varcò la soglia di quello studio, si fermò e salutò in maniera distinta: Il barone, seduto sulla poltrona dietro una massiccia scrivania, stava tirando una boccata di fumo dal sigaro toscano che teneva fra le labbra, ma appena vide mio nonno, restò sorpreso: non gli sembrava più quello che aveva percosso nel frantoio e neppure se lo ricordava così alto. L’uomo che gli stava di fronte indossava un impeccabile vestito nero, su un gilet di seta, di un bianco ondeggiante, con cravatta grigia su camicia bianca; sulle spalle portava un nero mantello a ruota, con fodera di seta bianca, che gli arrivava quasi alla caviglia, mentre sul capo teneva un cappello grigio a larghe falde, che tolse intanto che si avvicinava al padrone di casa. Al barone sembrò un uomo d’altri tempi, di un’eleganza che raramente aveva visto prima. Nella mano sinistra, mio nonno, stringeva lo staffile, e lo protese dicendo:

“Sono venuto a portarti questo – e lo depose sopra il tavolo che si ergeva fra lui e il barone – ma anche perché ci tengo a dirti che spesso le persone che ti trovi casualmente di fronte sono tutt’altro di quel che sembrano. A tal proposito – indicando lo scaffale con i libri che gli stava alle spalle – dal momento che, come vedo, sei fornito di una imponente biblioteca, faresti bene a consultare un libro, che sicuramente avrai, in cui sono riportati i nomi delle famiglie appartenenti alla “Nobiltà Italiana”. Forse non l’hai mai consultato o se l’hai fatto ti sarà sicuramente sfuggito che fra quei nomi vi è anche quello della mia famiglia: una delle più antiche dell’isola e, se vai a controllare bene, potrai renderti conto che quando i miei antenati godevano fama, da centinaia di anni, come Conti e Baroni di Gurafi, di Noto e di Malta, il tuo casato non esisteva ancora. Avrei potuto pretendere le tue scuse in pubblico, così come in pubblico ti sei permesso di colpirmi, ma io non ho la tua superbia, la tua tracotanza e la tua cattiva educazione; ho soltanto una punta d’orgoglio, però non provo alcun piacere nel far sapere ad altri chi sono in realtà: mi basta saperlo io, cosicché per accettare le tue scuse ho preferito venire fin qui.”

A quel punto il barone si alzò, più confuso che persuaso, e come vinto da tanta signorilità e sicurezza gli si avvicinò e, come avesse la lingua impastata, disse:

“Sono… sono spiacente; sono sinceramente addolorato. Devo veramente chiedervi mille scuse… Riconosco di avere un carattere… Un carattere imperdonabile e… Scusatemi. Non avrei mai potuto immaginare di avere a che fare…”

- Il seguito di questa storia, il pittore Andrea Marzio, lo può soltanto immaginare, dal momento che la pagina successiva non esiste più.


La storia di donna Filippa


ma non me la sentivo di scrivere una storia in cui non credevo; la storia di un signore, ancora vivente – che si faceva chiamare Don Felice il Moschettiere – che magari poteva essere scritta soltanto in chiave ironica, satirica o in farsa, e ne parlai anche all’editore, ma quello mi disse che una storia così non poteva interessare nessuno, e credo che avesse ragione. Quindi, fui costretto a riferire ciò all’interessato, se non altro per tentare di togliergli dalla testa la convinzione di avere una vita da romanzo, ma, in verità, anche per levarmelo di torno, dal momento che era diventato petulante ed invadente. Vengo al dunque per dire le cose come stavano veramente: il signore in questione, ultrasettantenne, era un personaggio convinto di avere avuto una esistenza avventurosa, pertanto credeva che se ne sarebbe potuto scrivere un romanzo dal quale trarne addirittura un film; tutto questo, solo perché, in passato, aveva tentato di uccidere sua moglie e per avere avuto qualche delusione dalla vita. Era un piccolo uomo (non solo di statura), un individuo bugiardo, analfabeta; ed era quest’ultima condizione a cui, a parer mio, doveva essere, almeno in parte, attribuita la colpa di tutti i suoi mali.

Quest’uomo si rivolse a me, con l’aria di chi sta per narrare l’impresa di Garibaldi o la presa della Bastiglia, e mi parlò di se. Intanto che prendevo appunti, per seguire poi un certo filo cronologico dello svolgersi dei fatti, mi convincevo di che pasta fosse fatto quel tipo d’uomo che mi stava seduto di fronte.

Chiaramente non si rendeva conto cosa avrei potuto scrivere di lui: o un sacco di bugie, per far apparire vigorosa la sua personalità, in realtà infima, oppure, con la verità, narrare un semplice fatto di cronaca di quel tempo e l’indole di un uomo di poco conto; e ciò non credo gli avrebbe fatto onore.

Ci sono uomini con storie veramente importanti, spesso drammatiche e non vanno certo in giro in cerca di un autore che glieli scriva per darle in pasto al pubblico; quella del signore in questione è la storia di un piccolo uomo, anzi non è neppure una storia. Lui si è presentato a me chiedendomi “una grande cortesia”, ma evidentemente ignorava che chi scrive non deve fare un piacere al personaggio, se non vuol fare una pessima figura. Lui attribuiva la colpa di tutte le sue disgrazie alla propria madre; ma, forse, non sapeva che ogni uomo, per un fatto naturale, ha il diritto di lottare, innanzi tutto, per la propria libertà. E lui, certamente, non ha mai lottato. Mi ha raccontato che, soltanto perché una sera era rincasato – facendo ritorno dalla sua fidanzata – dopo l’ora di cena, cioè dopo le sette, sua madre gli fece rompere il fidanzamento. Ma mi chiedo: a ventuno anni, questo uomo ( mi disse che tale era la sua età a quel tempo) che razza di coglione era? Voleva bene a quella ragazza, oppure si era fidanzato solo perché – come mi aveva confidato – era stato consigliato da sua madre? Secondo me, era un immaturo. E pensare che aveva un lavoro… era netturbino, aveva uno stipendio grazie al quale avrebbe potuto fare il bello e il cattivo tempo; trovarsi la giusta ragazza e sposarsi, ma lui no, poiché certamente era un mammone anche se, come ha tentato di farmi credere, fuori dalle mura di casa faceva il superuomo: duelli, con il coltello, a destra e a sinistra… donne a manca e a dritta, più di Rodolfo Valentino…

In verità, la storia di quest’uomo, non potevo scriverla come lui desiderava perché, come ho accennato prima, la sua non è una storia, anzi, forse è tutto un errore come, per certi versi, un errore è stato il regime durante il quale lui aveva vissuto la sua giovinezza; un regime il cui solo interesse era che la maggior parte degli italiani fossero dei coglioni, incapaci di ribellarsi anche se tenuti nella fame e nell’arretratezza più nere. Su questa linea si che se ne potrebbero scrivere di storie. Storie vere, drammatiche.

Quella di donna Filippa, per esempio, è una storia vera; è la drammatica storia di un’autentica popolana della periferia barcellonese.

Aveva cacciato il marito di casa, un incosciente ubriacone, sperperatore e senza voglia di lavorare, che le aveva venduto persino il corredo matrimoniale e si era giocato a carte e a vino il ricavato. Come erano vissuti assieme per cinque anni è semplicemente inspiegabile. Unici capitali di donna Filippa, erano: la sua straordinaria bellezza di femmina bruna, con un corpo snello, asciutto e slanciato, un tugurio, chiamato casa e quattro galline che le davano, puntualmente, due uova al giorno e, a volte, anche tre.

“Vattìnni, mbriacunàzzu…vattìnni fora da me casa. A cèrchiti un travàgghiu si vo’ turnàri ‘nta sta casa, se no, non ti fari cchiù vìdiri di sti occhi. Se ffari a buttàna a fazzu, ma sulu pi campàri a me fìgghiu, non pi campari a tia. Vattìnni… sugnu stufa di èssiri puru bastuniàta.”

Così gridò in faccia al marito, cacciandolo di casa, quella tarda sera in cui era, puntualmente, rientrato sbronzo e propenso a maltrattarla.

“E pirchì non mu cerchi tu un travàgghiu? Ma quantu voti ti l’è diri chi non si ndi trova travàgghiu, manccu cu l’òrdini du re. Chiù tostu fammi i du ova chi fìciunu i iaddìni stamatìna, all’occhiu di boi i vògghiu cucinàti picchì allùra ti rumpu l’ossa, buttàna di strapàzzu!” ribatté l’uomo, balbettando, come se tra una parola e l’altra dovesse vomitare quel vino che lo faceva sembrare pieno fino agli occhi. Ma la donna decisa a ribellarsi, una volta per tutte, a quell’impiastro di prepotenza, lo spinse fuori dalla porta, col manico della scopa in mano, urlandogli, mentre quello, finendo di barcollare, si accasciava quasi in mezzo alla strada, come un sacco di spazzatura.

“Stasìra, pi ttia, non ci sunnu nè ova pi mangiàri e mancu lettu pi dòrmiri. Fora ha’ dòrmiri, comu un cani.” E si barricò in casa. Non sentì più parlare di lui che una quindicina di giorni dopo, quando si seppe che era stato arrestato dai carabinieri, assieme ad un complice, con l’accusa di aver rubato un vitello in una stalla della periferia barcellonese. Era il meno che gli potesse capitare.

Due anni erano passati dalla sera in cui cacciò il marito di casa e, donna Filippa, con un bambino di quattro anni a carico, era riuscita a vivere onestamente e procurare da mangiare per il figlio e per se stessa. Ma i tempi erano difficili, tristi; come se non bastassero i tant’altri patimenti ereditati fin dalla fine del primo conflitto mondiale, la scalata di Mussolini al governo e, successivamente, l’intervento in una disastrosa, luttuosa guerra, certamente, non volevano dire benessere per chi come lei era, da sempre, vissuta nella miseria e nelle umiliazioni più tristi.

Spesso nei pressi del tugurio di donna Filippa passava - a bordo del suo “carrozzino” trainato da un bellissimo cavallo nero - Vincenzo, il figlio del barone Nicola, e sicuramente aveva notato la bella femmina, tanto che, un caldo pomeriggio di giugno del 1944, rifacendo quella strada, arrivato nelle vicinanze, tirò le redini ed il cavallo si fermò. Donna Filippa era lì, seduta, all’ombra davanti la porta, il figlioletto in braccia, e tutta presa ad imboccarlo di quel pane bollito nel piatto d’alluminio che stava posato su una sedia mezza sgangherata, con la trama di corda sfilacciata che le pendeva in mezzo i quattro piedi.

Il figlio del barone Nicola, dal suo calesse, imponente come un dio greco, vestito di lino bianco, guardò la donna nella sua mansione. Lei si girò verso di lui, sentendosi osservata, e quello le rivolse la parola:

“Signora, le dispiace se per favore le chiedo un bicchiere d’acqua? Ho una gran sete, come se avessi attraversato il deserto.” La donna lo scrutò tutto, per un lungo istante e, poi, sentenziò, in lingua madre:

“Vossìa aspittàssi un mumèntu chi poi lu servu sùbbutu.” Dopo aver fatto ingoiare a forza l’ultima cucchiaiata al piccolo lo fece scendere dalle ginocchia, prese il piatto dalla sedia, che rivelò un grosso buco e, prima di scomparire in casa, gli disse:

“Ora ch’u panzunèddu l’hai gghinu va’ a giucàri.” Qualche minuto dopo, la donna, comparve in mezzo alla porta con un bicchiere d’acqua in mano e poté vedere il figlio del barone Nicola che, sceso dal calesse, stava accarezzando la guancia del bambino, intanto che gli chiedeva:

“Come ti chiami?”

Ma il piccolo se ne stava timidamente muto e a faccia in giù. La donna gli si avvicinò, porgendogli il bicchiere e, indicando il bambino, disse:

“U piccirìddu è tìmidu con le persone che non canùsci. Ecco l’acqua…”

Il figlio del barone si girò e, intanto che prendeva il bicchiere, la guardò fisso negli occhi tanto che lei fu costretta ad abbassarli. Poi portò il bicchiere alle labbra, mandò giù, quasi in un sorso, il contenuto e, ritornandole il bicchiere, disse.

“Me lo riempirebbe di nuovo? ho ancora sete.”

“Certo”. Rispose la donna, e tornò in casa; l’uomo, dietro di lei, salì il gradino che separava la porta dalla strada e si affacciò all’interno, appoggiandosi allo stipite, poi fece un passo e attese che la donna gli portasse l’acqua, ma lei, non avendolo notato entrare in cassa, restò sorpresa allorquando se lo trovò di fronte all’improvviso.

“Non si guardi intorno… Per quanto mi sforzi di tenerla pulita resta sempre ’na catapecchia.”

L’uomo prese il bicchiere che la donna gli porgeva, cominciò a sorseggiare il fresco contenuto e, intanto, constatava:

“Certamente non devi passartela bene per accontentarti di vivere qui.”

“Non potrei passarmela pèggiu.” Rispose lei, con un mezzo sorriso di rammarico.

“Non ce l’hai un lavoro?” Chiese lui.

“No. E poi dove potrei andare con un bambino di quattro anni a carico?” Rispose lei.

“Non hai qualcuno che te lo tenga?”

“Ci sarebbe mia madre, ma è troppo su con gli anni; non potrebbe corrergli dietro per tutta la giornata.”

“Per tutta la giornata no, ma per poche ore non potresti chiederle il favore?” Chiese l’uomo.

“Poche ore? E cosa avìssi a fari? Chiese la donna, mostrandosi sospettosa, notando che l’uomo era passato dal lei al tu senza chiedere il permesso.

“In casa mia c’è sempre da fare, se hai voglia di lavorare; le scale da pulire, la cucina…” Spiegò l’uomo. Allora, donna Filippa, fece un ampio sospiro e lo guardò con fiducia negli occhi, dicendo, intanto che gli toglieva il bicchiere vuoto dalle mani:

“Mi scusi, ma mi aveva fatto pensare male. Comunque, se si tratta di lavorare, la voglia non mi manca pi davèru.”

“Con me non devi essere sospettosa, d’accordo? Sei una bella donna, è vero, potresti fare venire certe idee, ma con ciò non vuol dire che un uomo non debba portarti rispetto; e poi ricordati che il figlio del barone Nicola è un signore per bene.”

“Ah, lei è il figlio del barone…”

“Si, Vincenzo, precisamente.”

“Ho capito, ho capito… Che piacere! Che piacere, signurìnu Vincenzu… Si accomodi…”

“Adesso devo andare, non posso intrattenermi, ma domani alla stessa ora ripasserò e ti prometto che mi fermerò un po’ di più. Arrivederci. Domani desidero sapere se tua madre è disposta a tenerti il bambino.” Così dicendo, Vincenzo, strinse la mano a Filippa, poi le fece una carezza sulla guancia, facendola arrossire e, girati i tacchi, uscì in strada, dove il bambino stava seduto per terra, e giocava con delle pietruzze. Vincenzo, guardò il piccolo, quindi tirò fuori dalla tasca alcune monete, si avvicinò al bambino e gliele mise in mano dicendo:

“Tieni, piccoletto, fatti comprare le cose belle dalla mamma.” Il bimbo prese i soldi e, chiuso nella sua timidezza, corse in casa, intanto che il figlio del barone, saltato sul calesse, mollava le redini, ed il cavallo si avviava passo dopo passo.

La calda sera estiva s’inoltrava e i rumori, sintomo di animazione quotidiana di ogni agglomerato urbano andavano ad attenuarsi sempre più mentre donna Filippa, silenziosamente, si accingeva a mettere il suo bambino, già addormentato, a letto. Poi si accostò davanti allo specchio consunto, d’un mezzo sgangherato “cantaràno” e si riflesse, alla fioca luce della “lumèra” ad olio. Cominciò a spogliarsi, piano piano e, quando rimase a torso nudo, si accarezzò il seno con ambedue le mani, lo sospinse e considerò compiaciuta quanto se lo ritrovava sodo; e nel contempo pensava:

“Ho appena venticinque anni; posso avere ancora qualcosa di buono dalla vita. Basta non avere troppi scrupoli, e, così, potrò crescere decentemente il mio bambino: non voglio che subisca privazioni e miseria.” Questi e tanti altri simili erano, in quel momento, i pensieri che martellavano il cervello di Filippa; poi si accarezzò il viso e si compose i capelli in modo che le addolcissero i lineamenti. Compiaciuta, senza togliere gli occhi dallo specchio, riprese a spogliarsi, fino a rimanere completamente nuda, e, consapevole della propria bellezza, pensò che il figlio del barone Nicola avrebbe fatto, di sicuro e presto, il primo passo.

“Non me ne dispiacerà affatto, e poi è un bell’uomo.” Confessò alla propria coscienza.

Per quanto sensuale e calda, una femmina, con un marito come quello di donna Filippa, finisce spesso, consciamente o inconsciamente, per mandare i suoi sensi e istinti sessuali in letargo, forse, per non doverli risvegliare mai più. Ma Filippa si era imbattuta in un giovane come Vincenzo che, con una delicata carezza, aveva riacceso in lei un fuoco del quale non ricordava più il calore. Adesso si distendeva sul letto e, dimenticando persino di soffiare sulla fiammella della“lumèra”, fissava il soffitto con la speranza che un sonno profondo la riportasse velocemente verso la luce del nuovo giorno. E si addormentò, la giovane donna, con l’ultimo pensiero rivolto al figlio del barone Nicola, tanto che lo sognò in una sequenza di immagini vissute, come quella nella quale si rivide mentre gli porgeva il bicchiere con l’acqua o quella in cui lui l’aveva delicatamente accarezzata. E vi furono, nel sogno, anche immagini non ancora vissute, ma desiderate; vide la mano di Vincenzo le scivolarle sul collo mentre l’attirava a se per baciarle le morbide e socchiuse labbra. Si rivide nuda tra le braccia di lui, accarezzata e gaudente, come mai era stata accanto all’uomo che malau-guratamente aveva sposato.

Il giorno dopo l’attesa le fu piacevole, intanto che cercava di mettere un po’ più di ordine del solito in casa. Il pomeriggio, indossò un abito più leggero ed elegante, tanto da mettere in evidenza le sue belle forme, e si sedette quasi nel vano della porta a rammendare qualche indumento del suo bambino. Non molto dopo, i suoi pensieri furono destati dallo scalpitio di zoccoli di un cavallo che si avvicinava sempre più, ma, lei, dandosi un certo contegno, non si affacciò, anzi, non sollevò il capo fin quando il calesse non si fu fermato, e la voce di Vincenzo non si fece sentire:

“Posso entrare?”

“Avanti, avanti, s’accomudàssi, signurìnu.” L’uomo entrò in casa, si guardò tutt’intorno e, fissando il suo sguardo negli occhi della donna, disse:

“Ieri, Senza dubbio, mi sei parsa una bella donna, ma oggi è diverso; come se da te trasparisse qualcosa in più.” La donna, con molto garbo, si alzò dalla sedia e, stringendo la mano che quello le porgeva, rispose:

“Sono com’ero ieri; di diverso c’è solo il vestito.”

“Tua madre è disposta a tenerti il bambino?” Chiese lui.

“Sì, ha detto che lo tiene.” Rispose lei.

“Allora da domani mattina sei assunta in casa mia.” Annunciò Vincenzo.

“Grazie. Avìa pròpriu bisògnu d’un travàgghiu.” Confessò donna Filippa, nel tentativo di sganciarsi dalla stretta di mano, ma lui l’attirò delicatamente a se, le accarezzò la guancia destra e, sentendola fremere le disse:

“A te non è solo un lavoro che manca; a te manca ciò che dovrebbe farti sentire femmina al cento per cento.”

Le guance della donna si tinsero di rosso, e lei sentiva come se le stessero prendendo fuoco,

quindi, timidamente, disse:

“Vossignoria mi sta facèndu virgugnàri.”

“Ma no, non ti devi vergognare; lo sai benissimo che io dico la verità. E, poi, sarebbe contro natura se tu non sentissi il bisogno di un maschio. Con ciò non intendo dire che hai fatto male a cacciare di casa tuo marito: lo sanno tutti che razza di uomo inutile fosse.”

“Sì, tutti u sannu chi picca ci mancàva chi mi mandàva a fari a fimminàzza di strada.” Continuò lei.

Donna Filippa cominciò a lavorare in casa del barone Nicola e, ben presto, si rese conto con chi aveva da fare: il barone era vecchio, superbo e brontolone di settantacinque anni, ma, sofferente di gotta com’era, ne dimostrava almeno una decina in più; per quanto riguarda il figlio: non era certamente quello stinco di santo che sembrava a prima vista. I due abitavano soli in un grandissimo palazzo della città; un edificio sudicio e vetusto in cui non sarebbero bastati un esercito di inservienti molto volenterosi per renderlo vivibile, ci si figuri cosa avrebbe potuto risolvere la povera Filippa da sola… Ma certamente al figlio del barone Nicola interessava tutt’altro che rendere decente l’abitazione, e lei lo intuì benissimo.

Il vecchio barone non era in condizioni di essere autosufficiente in tutto, ma la mattina, nonostante la sua precaria salute, non aveva perso l’abitudine di levarsi dal letto prima dell’alba: ad ogni piè sospinto ripeteva che se non voleva farsi trovare a letto dalla morte, doveva entrare in attività prima di lei… Come se la raccoglitrice di vite umane avesse un orario di servizio.

Appena in piedi, il borioso intollerabile barone, pretendeva di essere aiutato persino nel vestirsi e, dopo la colazione, a montare sul calesse che di solito lo portava a fare il giro dei suoi vigneti, aranceti e uliveti, per controllare i contadini. Per aiutare il vecchio, Vincenzo aveva chiesto a donna Filippa di restare a dormire la notte in una stanza del palazzo. Lei aveva accettato, ma a malincuore, spinta dal bisogno e dalla promessa di un buon salario che, per quei tempi, era cosa rara. Dopo aver accudito il vecchio, la donna, si occupava della pulizia delle stanze dei due padroni di casa e, sistemati i letti, lasciava il palazzo, ma ritornava per preparare il pranzo, quindi, dopo aver sparecchiato la tavola e lavato i piatti, faceva ritorno dal suo bambino col quale rimaneva per tutto il pomeriggio. La sera faceva ritorno al palazzo per preparare la cena ai due e vi rimaneva per tutta la notte. Andò avanti così per una settimana poi Vincenzo pretese di aver portato il caffelatte a letto; lei fu accondiscendente anche perché, subito dopo, lui voleva fare l’amore e a lei piaceva a quell’ora di buon mattino.

Giorno dopo giorno, la donna, si rese conto che il suo lavoro era più pesante di quanto avesse immaginato, ma stringeva i denti e faceva tutto in fretta pensando di far ritorno, al più presto, dal suo bambino.

Lo stipendio non fu quello che la donna si aspettava, nonostante i rapporti con Vincenzo erano diventati intimi. Quando lei si vide porgere i soldi manifestò la sua contrarietà, ma il giovane barone le disse, con una punta d’ironia:

“Non ti sembra abbastanza? Guarda ch’è sempre meglio di niente.” Quindi l’agguantò per le braccia e l’attirò a se per baciarla. Lei, facendo resistenza, gli disse:

“Iò vurrìa chi tu non apprufittàssi du fattu chi tra mia e tia c’è un rappòrtu ìntimu; u me travàgghiu u vògghiu pagàtu comu si devi.”

“Per ora accontentati di quello che ti ho dato; la prossima settimana vedrò se posso darti qualcosa in più.” Fu la risposta perentoria di Vincenzo.

I giorni passavano, e Filippa, suo malgrado, notava che le mansioni affidatele erano sempre

più gravose e le rimaneva sempre meno tempo da dedicare al figlio il quale, ella si rendeva conto, era un peso per la sua anziana madre. La sera si sentiva stanca e le faceva un male insopportabile la schiena, ma non intendeva rinunciare a quel lavoro. La notte, spesso, Vincenzo l’andava a trovare nella stanza dove lei dormiva, ma se nel primo periodo la donna era consenziente e partecipe, col passare del tempo – rendendosi conto di non essere amata, come aveva sperato inizialmente, e neppure stimata come essere umano – si sentiva veramente una serva e niente di più, quindi mostrava una chiara, evidente ritrosia ad ogni richiesta di prestazione amorosa, fino a manifestare il suo totale rifiuto. Ma Vincenzo non intendeva rinunciare a lei, e più si vedeva rifiutato più diventava insistente, fino a ricorrere al ricatto, alla minaccia di toglierle il lavoro al quale, era evidente, ella teneva moltissimo. L’uomo, nell’arco di tre mesi, era cambiato, si era trasformato in un tiranno; negava di retribuire Filippa; le dava soltanto qualche acconto e, con scuse sempre diverse, rinviava di saldarle lo stipendio. Era passato ancora un mese, e Filippa nel palazzo del barone Nicola si sentiva come prigioniera. Vincenzo, per concederle qualche spicciolo, la costringeva a fare le cose più disparate, nelle più diverse ore della giornata e anche della notte. Un giorno, dopo pranzo, quando, come al solito, lei si accingeva a lasciare il palazzo per andare ad accudire il suo bambino, lui glielo voleva impedire energicamente, ma la donna non poteva esimersi dall’andare dal figlio, quindi diede uno spintone al suo aguzzino e fece per correre via; Vincenzo la rincorse per le scale, la picchiò selvaggiamente e, dopo averle strappato i vestiti, la violentò sulle stesse scale. Filippa, per non farsi maltrattare ulteriormente, restò immobile come un cadavere; lui, allora, le disse:

“Se non collabori non andrai da tuo figlio.” Fu così che lei, suo malgrado, dovette subirlo e, anche, attivamente. Alla fine si sistemò alla meglio la veste e, singhiozzando, si avviò per andare dal figlio mentre la minaccia di Vincenzo la inseguiva:

“Se alle cinque non sei di ritorno vengo a prenderti io e ti ammazzo di botte.”

La povera donna aveva il volto tutto tumefatto, le labbra gonfie e gli occhi rosso sangue; si sentiva dolorante in tutte la parti del corpo, per le contusioni che i calci ricevuti le avevano causato. Percorse tutto il tragitto piangendo, e quando…

- A questo punto, per il pittore, è impossibile continuare a leggere, se non alcune pagine più avanti.

…quando mancava un quarto d’ora alle cinque di quel pomeriggio di ottobre.

Mio padre, arrivato nei pressi del villaggio denominato Zigari, in periferia di Barcellona Pozzo di Gotto, vide a distanza la figura di una donna che credette di riconoscere; quando le fu più vicino ebbe la certezza che essa era Filippa, nonostante le lesioni sul viso la rendessero quasi irriconoscibile. Quella donna era una lontana parente di mia madre, perciò lui ritenne opportuno fermarsi per salutarla, e fu così che, quando le chiese come mai era ridotta in quello stato, lei decise di raccontare tutto, quindi disse che stava facendo ritorno proprio al palazzo del barone. La poveretta, maledicendo la sfortuna che, secondo lei, la perseguitava, cominciò a singhiozzare e a piangere, ad un certo punto si sentì girare la testa e, prima di cascare al suolo, si appoggiò a mio padre che la fece sedere sopra un muretto, dicendo:

“Credo che dovresti andare in ospedale, per farti controllare… Altro che far ritorno da quel

maiale…”

“Ma o prontu soccòrsu vorrànnu sapìri cu fu chi mi cumbinò ‘nta sti cundiziòni…” Rispose lei.

“E tu racconterai loro tutta la verità.” Le suggerì mio padre.

“Ma poi perdu u travàgghiu… iò haiu bisògnu di travagghiàri si ci vogghiu dari da mangiàri

a me figghiu.” Si lamentò Filippa. Allora, mio padre, la cui bontà e altruismo non avevano limiti, le consigliò:

“Tu fai come ti dico io, prima o poi ti convincerai che ho ragione. – E quindi promise – Per quanto riguarda il lavoro, m’impegno a trovartene uno migliore.” In quel momento si trovava a passare un carretto, e mio padre chiese al conducente la cortesia di accompagnare Filippa in ospedale.

“Io non posso accompagnarti; mia moglie sta male, devo tornare a casa.” Le disse mio padre; infatti si trovava sul posto di lavoro quando era stato avvisato del malore di mia madre che, tra l’altro, era al settimo mese di gravidanza, quindi non vedeva l’ora di arrivare a casa.

Strada facendo, su quell’occasionale mezzo di locomozione, la povera donna Filippa rifletteva sulla sua situazione e pensò che, giusto quando credeva di aver trovato un onesto lavoro ed un uomo che le volesse bene, non avrebbe potuto immaginare di dover scoprire che quell’uomo non desiderava una cameriera e un’amante, ma una schiava sulla quale avere persino potere di vita e di morte.

Mio padre arrivò a casa e trovò il medico che aveva già visitato mia madre, la quale non aveva niente di grave, ma solo un abbassamento di pressione arteriosa dovuta alla stanchezza e al fatto che ingeriva pochi liquidi, quindi doveva stare distesa e a riposo.

Al pronto soccorso dell’ospedale, dove Filippa fu visitata, le furono riscontrate due costole incrinate, un’emorragia all’occhio sinistro e ferite lacero contuse alle labbra interne, che le furono suturate, quindi il medico decise di farla ricoverare per un più approfondito controllo. Fu dimessa tre giorni dopo e, quella stessa sera, credette opportuno, andare a far visita a mia madre. Mio padre, al suo rientro, la trovò in casa che chiacchierava con mia madre, quindi volle sapere cosa le avevano chiesto in ospedale. Quando donna Filippa gli ebbe raccontato tutto lui le consigliò di denunciare Vincenzo, ma lei rispose che non voleva uno scandalo poiché, dopo, nessuno le avrebbe dato un lavoro e, per giunta, non aveva i soldi per pagarsi un avvocato. Allora mio padre le promise:

“Se è per questo, i soldi te li faccio dare io da quel lestofante, visto che ti deve tre mesi di stipendio.”

Come vuole la prassi, dato che lei aveva dichiarato al pronto soccorso che era stato Vincenzo a procurarle le lesioni, l’ospedale inoltrò l’informazione al commissariato. Quindi il figlio del barone Nicola, pur non essendo stato ancora denunciato da Filippa, fu ugualmente convocato dal commissario di Pubblica Sicurezza dove si recò accompagnato dal suo avvocato e, all’interrogatorio, raccontò che aveva sorpreso Filippa in casa a rubare; disse che, poiché quella aveva reagito con atteggiamento aggressivo, lui si era difeso e nella colluttazione aveva avuto la meglio. Chiaramente al commissario rimanevano dei dubbi, quindi convocò anche Filippa, dopo essere stata dimessa, la quale ovviamente, si presentò senza avvocato. In conclusione, il pubblico ufficiale le disse:

“Signora, io non credo che lei sia una ladra, ma se il barone dovesse sporgere denuncia per tutelarsi, quando sarà costretta a comparire davanti al giudice come farà a dimostrare che si trovava in casa del barone come lavorante, e non come ladra, dal momento che quello asserisce questa tesi?”

“Io non lo so… non lo so - Rispose lei - Sàcciu sulamènti chi chiddu riniscìu a mittìrisi da parti da raggiùni. Come può, dopo avermi trattata peggio di una schiava e massacrata di botte, accusarmi di essere una ladra?”

Nel tardo pomeriggio, Filippa, preoccupata, s’incontrò con mio padre a cui raccontò dell’incontro con il commissario, sperando di poter essere aiutata, infatti gli disse:

“Cosa devo fare? Sono rovinata se quel bastardo mi denuncia come ladra.”

“Ancora non è detto – disse, quasi tra se, mio padre – Adesso vattene a casa; cercherò di risolvere io questa faccenda, ma non parlarne con nessuno, hai capito? – E ricalcò - Con nessuno, mai, altrimenti ti troverai in guai peggiori.”

La stessa sera, a tarda ora, il barone Vincenzo, oltrepassata la soglia del grande portone del suo stesso palazzo, si trovò nell’androne buio delle scale che conducevano al piano abitato e subito cercò l’interruttore per accendere la lampadina, tastando con le mani sulla parete di destra. Prima che l’androne s’illuminasse il portone si chiuse come per incanto. Una figura umana alta, ammantata ed incappucciata di nero apparve di fronte a Vincenzo il quale vide puntarsi una lunghissima lama di coltello alla gola. Il giovane rimase sorpreso, impaurito ed immobile; l’incappucciato lo spinse energicamente con la faccia contro il muro e lo perquisì accuratamente: era armato di pistola e lo disarmò, gli tolse il portafoglio, quindi ne controllò il contenuto e, constatato che era ben gonfio di banconote di grosso taglio, disse:

“Questi, credo, basteranno per il salario arretrato di quella sfortunata madre, ma non sono sufficienti per ripagarla delle angherie che le hai fatto subire e delle botte che le hai dato. Adesso andiamo su… mi consegnerai ancora un po’ di soldi per Filippa, e cerca di essere generoso, molto generoso, altrimenti se domattina verrà qualcuno a cercarti troverà i tuoi intestini sparsi per tutto l’appartamento.”

I due salirono per le scale e, quando furono all’interno dell’abitazione, Vincenzo consegnò una mazzetta di banconote allo sconosciuto il quale gli disse:

“Non ti azzardare di farti venire idee di rivalsa, di qualunque genere, nei confronti di donna Filippa, e cerca di dimenticare immediatamente questo nostro incontro se hai un pizzico di rispetto per la tua schifosa vita.”

Dopo aver intascato le banconote, l’incappucciato, colpì alla testa Vincenzo che cadde sul pavimento svenuto, quindi, uscito dal palazzo, si dileguò nel buio della notte.

Il giorno successivo, poco dopo l’ora di cena…

- Così si conclude, obbligatoriamente, il contenuto di quella pagina, poiché il resto è andato in cenere.

.........................................(Segue)